(A firma di Giuseppe Ranalli,Presidente della Tecnomatic Spa) –
Negli ultimi anni attraversiamo una fase di
crisi economica strutturale mondiale e,
come sempre accade nei periodi così
difficili, certi temi diventano tormentoni
frequenti, divulgati in modo strumentale e
spesso proposti come teorie per uscire
dall’empasse presente.
Per anni si è definita la borsa come lo
strumento che offriva a tutti la possibilità di
arricchirsi velocemente; ed è presto arrivata
la smentita, molto dolorosa.
Ciò nonostante, se da un lato la borsa
trasferisce ricchezza da una mano all’altra,
senza creare valore, dall’altro per le aziende
la borsa rimane uno strumento finanziario
importantissimo per catalizzare il risparmio
privato.
Le teorie finanziarie hanno imperversato nel
mondo della produzione, lasciando ferite
spesso inguaribili e disperdendo il
patrimonio storico di conoscenze delle
aziende.
In Italia possiamo vedere gli effetti di questa
filosofia soprattutto nella grande impresa:
aziende storiche che, un pò alla volta,
hanno svenduto pezzi della propria attività
principale per comprare un pò di giornali, un
pò di banche, un pò di calcio, … un pò di
tutto!
Risultato: la perdita di competitività nel
settore industriale con l’effetto di trascinare
nel baratro anche la media e la piccola
impresa, che rimane la colonna portante del
sistema Italia.
È auspicabile che la grande impresa,
tornando a concentrarsi sulla realizzazione
efficiente di prodotti innovativi e di qualità,
svolga anche un compito
educativo/formativo nei confronti della
media e piccola impresa; condizione
necessaria affinchè la micro impresa diventi
piccola, la piccola diventi media, la media
diventi grande.
Di fronte alla perdita di competitività si è
iniziato a parlare di delocalizzazione della
produzione nei paesi low cost, pur
annunciando l’allarme del “pericolo
giallo”.
Si va strutturando, a mio avviso in modo
preoccupante, la teoria della società post
industriale, cioè l’idea che nell’occidente
industrializzato si facciano solo servizi e
distribuzione di beni prodotti altrove.
Personalmente, non riesco ad
immaginare una società che viva di servizi
senza avere un tessuto produttivo da
servire. Credo che una sana riflessione
possa aiutare l’uomo a tornare al centro
del problema.
Le aziende nascono sempre dalla
passione dell’imprenditore per l’uomo, per
i suoi bisogni e per un fare. E non sono
convinto che i bisogni del mondo
occidentale siano completamente
soddisfatti.
Se è ragionevole e giusto produrre alcuni
beni in paesi emergenti è altrettanto vero
che la crisi attuale è l’occasione per
ripensare la propria impresa per esplorare
nuove frontiere, per innovare, ma
soprattutto per abbandonare la logica
delle rendite di posizione, presupposto
indispensabile per accorgersi,
osservando la realtà, a quali bisogni
occorre ancora dare risposta.
L’idea imprenditoriale è sempre legata
alla profonda osservazione della realtà.
Paradossalmente un paese che non
vuole passare dal welfare state alla
welfare society non può immaginare di
smettere di produrre…
Mi piacerebbe tenere sempre aperto un
dibattito, uno scambio su queste
tematiche che ci riguardano da vicino per
favorire una nostra più profonda
conoscenza e, soprattutto, per non subire
il ricatto del pensiero delle mode di
management.