(A firma di Antonio Cappelli,Direttore Confindustria L’Aquila) –

La fortissima finanziarizzazione
dell’economia (dall’abbandono della
stabilità dei cambi nel 1971 e dalla prima
crisi di petrolio del 1973) ha innescato
meccanismi irreversibili dei quali dobbiamo
tenere conto, perché lo scacchiere mondiale
ha ormai praticamente cambiato assetto, e
non solo per via dell’innovazione che dal ’70
in poi è stata sostenuta dalla capacità della
finanza di tradurre i patrimoni in investimenti
e ricerca. E’ dunque nato un nuovo mondo,
nel quale sono entrati, alcuni anche come
protagonisti, Paesi nuovi, prima
“inesistenti”, in più diversissimi tra loro.
Stando così le cose, il nostro vecchio
“manuale” delle regole dell’economia può
restare sul tavolo semmai come sussidiario,
perché crisi reali e finanziarie saranno
l’economia stessa: la dialettica è cambiata
per sempre.

Accolto questo come dato economico, si
può guardare con mente più serena alle crisi
industriali, innanzitutto ponendosi come
obiettivo non la conservazione del presente,
ma il continuo divenire. Stiamo imparando
ad affrontare le crisi, ed apprendiamo
sempre di più e sempre più velocemente:
qualora un crollo come quello attuale si
fosse verificato negli anni ’60 avremmo
avuto una vera depressione, oggi, invece,
ce la stiamo cavando egregiamente… e
sarà sempre meglio. Il mercato
internazionale attuale è un panta rei, e di
questo dobbiamo convincerci prima di
tentare qualsiasi soluzione: non c’è più
margine per le posizioni acquisite. E’ la
globalizzazione. Che non è un male -come
qualcuno sospetta -tutt’altro, può essere
una realtà molto democratizzante semmai
venissero applicate le regole del mercato e
non quelle dello statalismo. Un capitalismo
sano ha una sola piazza: il mercato, nel
quale vince o perde la qualità, cioè la
migliore offerta al consumatore.
Il punto focale sta nel fatto che per vincere
sui mercati si compete con i territori, prima
ancora che con le aziende: il passaggio è
importante per comprendere quale sia in
questa sede l’approccio alla crisi aziendale e
perché la si debba ritenere parte funzionale
di un tutto, piuttosto che un problema
capace di trascinarsi dietro l’intera
economia, o quasi.

Appurato che l’economia globale è un
sistema multi-localizzato, multi-radicato,
che non sopprime il locale ma lo induce a
cercare una forma più sofisticata di
differenziazione, il territorio risulta essere il
“piedistallo” delle aziende che vogliono
competere sui mercati del mondo. Esso
deve essere ragionato e costruito, tal che
non sia la crisi di un’azienda a decretarne la
depressione economica. Ragionare in
termini di occupazione da salvare, di cassa
integrazione e quant’altro significa soltanto
curare la ferita. E a poco serve. Altre se ne
apriranno, e poi altre ancora fino
all’emorragia di tutta la collettività sottoposta
al salasso. Bisogna agire sulla causa, cioè
sulla “costruzione” ragionata del territorio,
che comprende la messa a punto di nuove
idee e l’apertura di nuovi percorsi di
sviluppo, la trasformazione del suo sistema
economico in termini di “diversità e
riconoscibilità”. Insomma, si deve fare una
politica di marketing territoriale che
riposizioni il territorio in base alla
“conoscenza” e alle “competenze” (da non
confondere con la vendita, la pubblicità, la
commercializzazione, l’appealing, l’arrivo di
qualche capitale a buon mercato, eccetera):
il gioco competitivo non premia quei sistemi
territoriali capaci di offrire a prezzi più bassi
ciò che già altri possono dare, bensì quelli
che sono in grado di interagire con la
domanda globale; che sanno offrire un
insieme irripetibile di capacità localizzate,
fatte di risorse materiali ma, anche e
soprattutto, di intelligenza e saper fare
impresa e istituzioni. In sintesi, ma molto in
sintesi, è: analisi del territorio per
rilevarne/costruirne le vocazioni, piano
strategico con il quale far diventare le
semplici vocazioni delle eccellenze;
individuazione pratica delle azioni
attraverso le quali operare il salto alle
vocazioni; concertazione e coinvolgimento
totale di tutti gli strati sociali, civili, politici e
istituzionali; promozione internazionale del
territorio trasformato, portatore di una
differenza che gli interlocutori sono in grado
di riconoscere e apprezzare. Insomma,
un’attività che impegna in presa diretta la
politica locale come rappresentanza dei
diversi interessi, come motore delle scelte e
come sintesi tra le diversità.
Una classe dirigente si caratterizza proprio
per la capacità di gestire il conflitto endemico
e locale, per la proposta di visioni del mondo
e di metodologie che conducono a sintesi i
diversi interessi.
Il problema vero va rinvenuto nel
territorio/classe dirigente, che purtroppo non
ha una visione di lungo termine del proprio
futuro e tende ad accodarsi agli umori e agli
interessi facili o prevalenti del momento.