(A firma di Antonio Cappelli, Direttore Provincia Confidustria AQ) –

L’usuraio compie reato perché presta denaro con un interesse che supera il tasso soglia; alcuni Istituti Finanziari e Bancari prestano denaro con le stesse modalità ma non compiono reato: non c’è notizia criminis, non c’è iscrizione a ruolo del reato, insomma non parte il normale procedimento penale.

Ad oggi i tassi medi, in alcuni casi, superano il 16% ed arrivano fino ad un 17,37% nel caso di un credito revolving, purché pagato a scadenza; questo ci porta ad un tasso soglia massimo del 26,05%: eppure, tutti sanno, per averlo vissuto e per averlo sentito dire, che a tanti capita di pagare il denaro molto, molto di più.

Il mistero sta tutto nelle pieghe della “burocrazia del credito”, cioè in tutte quelle voci che sono incomprensibili a qualsiasi persona non specificatamente preparata ed esperta, ma che compongono, insieme all’interesse, quell’unicum che è il “costo del denaro”.

In particolare per le Imprese, nel conto corrente si annida gran parte di quella manovra che consente ogni tipo di arbitrio; non a caso, quando l’imprenditore ha bisogno di un prestito gli viene indicata non la strada più semplice ed economica, quella del finanziamento, bensì quella dell’apertura di un altro conto corrente. Con un finanziamento, che prevede uno studio ed una conoscenza dell’impresa e della finanza di impresa, l’azienda potrebbe essere posta nelle condizioni di risparmiare in quanto potrebbe godere di un piano su misura con interessi di poco superiori alla metà di quelli di conto corrente.
Purtroppo, in tempi recenti, anche le piccole e giovani aziende sono vittime dei “soliti istituti” proprio a causa dei cattivi consigli degli stessi, nelle cui grinfie un tempo cadevano maggiormente le aziende di più lungo corso che, avendo un arco di vita più lungo, avevano avuto maggiori occasioni di mal prevedere il fabbisogno di liquidità.
È un fatto che ormai anche le più giovani sono nella rete degli interessi autoreplicantesi, causati dagli splafonamenti: accade facilmente, infatti, che in corso d’opera sopravviene loro un bisogno di liquidità maggiore del fido previsto e cadono così vittime di interessi altissimi dai quali non si libereranno più. Al Sud, poi, l’effetto è perverso: i tassi sono ancora più alti a causa dell’alto rischio e, conseguentemente, l’accesso al credito è proibitivo.

Da un’analisi comparata risulta che in Francia, chi ha un fido e lo spende in tempi diversi dai pattuiti, paga solo una piccola penalità (0,1-0,3% al massimo, non 1,50 o 2 come in Italia) e non sull’intero ammontare ma solo sulla somma utilizzata! In Italia si pagano commissioni, interessi e penalità su tutta la sorte capitale.
Viene da dire che gli imprenditori italiani sono davvero i migliori del mondo per resistere ad uno Stato che li tassa per il 60% e ad un sistema bancario che li succhia per la stessa percentuale.

Le “pieghe”, o piaghe, del conto corrente sono variegate, ed offrono un raggio d’azione molto ampio, sono le commissioni, le commissioni massimo scoperto, i giorni valuta, le chiusure conto corrente, le commissioni e gli interessi splafonamento, le spese extra fido (roba che non esiste), i diritti liquidazione su conti affidati, (che non si sa cosa significhino), le liquidazioni interessi dare e le liquidazioni interessi debitori (che non significano assolutamente nulla), le penalità, gli oneri finanziari (grande buco nero nel quale c’è di tutto), spese addebitate (che non hanno fondamento in nessuna legge)…

Dalla somma di tutto questo intrigo, deriva l’usura legale di cui sono vittime gli imprenditori: i dati recenti dello Snarp di Roma ci documentano circa l’elevatissimo numero di suicidi giudicati, dal Centro Studi, “omicidi colposi del sistema bancario”. Ma anche le denunce inoltrate alle Procure da molti cittadini dicono chiaramente quale sia il livello limite che stiamo vivendo. Queste Banche, prima o poi si vedranno chiamare per i reati di cui all’art. 600 cp: riduzione in schiavitù, reato cui vengono ricondotti i metodi e le prassi con i quali i debitori, veri o presunti, vengono tenuti in stato di soggezione continuativa.

Le testimonianze delle sempre più numerose trasmissioni televisive danno la misura della gravità, rendendo di pubblico dominio un male per il quale l’opinione pubblica non aveva avuto modo di indignarsi semplicemente per ignoranza.

Insomma, un atteggiamento di arroganza che indica il verticalismo del rapporto di vassallaggio istituto finanziario-cliente.

Un verticalismo che deriva semplicemente da un calcolo costo benefici: diciamo che i conti correnti in Italia possono essere 60 milioni, che 100, 500, addirittura 1000 cittadini potrebbero fare gli atti alla banca e chiedere la ripetizione dell’indebito per una o più delle voci “false” di cui sopra, o per i motivi più seri che vedremo appresso.
Sicuramente si finisce ad una composizione bonaria (50/70% del dovuto), abboccabile per tutti, e l’istituto restituisce il mal tolto: ma restano 59,999 milioni di conti correnti sui quali agire indiscriminatamente! “Prelevando” mediamente 70 euro a conto corrente (qualche centinaio di euro se sul conto ci sono un pò di movimenti) e moltiplicati per il numero di tutti i correntisti, i miliardi di euro sono assicurati: perché smettere? E, soprattutto, chi può far cessare un simile mal costume? Ad oggi nessuno, soprattutto perché la Banca d’Italia è una Spa nella quale la maggioranza è costituita da banche, per cui ci troviamo di fronte al solito problema per il quale i controllati sono pure i controllori, e tutto resta come è.

A proposito di Banca d’Italia, tanto per dare la misura: dal ’52 al ’92 abbiamo stipulato con le banche contratti nulli perché privi di uno dei requisiti essenziali, il costo. Questo, infatti, regolarmente non veniva indicato perché si rimandava agli usi delle piazze nelle quali avveniva la negoziazione.
La sentenza della Suprema Corte di Cassazione, dopo quarant’anni (!), decretò la nullità del contratto e, pertanto, le imprese che avevano contratti uso piazza sono state obbligate solo nella misura degli intereressi legali: un ammontare pari ad 1/4 di quanto richiesto e regolarmente versato fino a quel momento da tutte le Imprese italiane.

Altra chicca: per disposizioni di una circolare amministrativa della Banca d’Italia la commissione di massimo scoperto doveva essere indicata a parte per motivi statistici; qualche istituto ha interpretato nel senso di estrapolare detta commissione dal computo degli interessi: ci è voluta un altro intervento della magistratura perché la commissione di massimo scoperto tornasse ad essere un corpo unico col tasso di interesse (a formare il quale, per legge che non può essere superata da una circolare – concorrono tutte le voci, escluse solo quelle di tasse e imposte): la sentenza è di qualche mese fa e ora quegli istituti devono fare i conti con il fatto che, rientrato il computo della commissione sul massimo scoperto nel totale, si ritrovano tassi che erano a giusta posta ai margini della soglia ma che, ora, risulteranno inesorabilmente ben oltre al di là dell’usura.

Non siamo lontani dal vero dicendo che il fallimento di molte imprese è “aiutato” dai propri finanziatori. Guardiamo per esempio il rating: dovrebbe essere assegnato con regole certe, addirittura usando un programma computerizzato: il margine per “manipolare” dovrebbe essere davvero zero. Eppure, accade spesso che un’azienda riceva una valutazione non rispondente al suo stato patrimoniale e alla sua capacità produttiva con tutto quello che ne consegue e cioè il cambiamento di tutta la vita dell’azienda e dei suoi guadagni: possibilità di nuovi affidamenti, condizioni di maggior favore, necessità di minor prestiti, pagamento minori interessi, maggiori investimenti, capitale aumentato…

Ci sono, poi, i casi in cui la massa passiva può risultare errata proprio a causa degli oneri finanziari che potrebbero non esistere, o risultare calcolati sulla base di interessi e commissioni non dovuti e, quindi, venire drasticamente ridimensionati; abbiamo sentenze che li hanno parzialmente o totalmente esclusi dal passivo fallimentare – perché non dovuti, per anatocismo (interessi sugli interessi), per usura, o per la somma di tutte le circostanze ed hanno contestualmente revocato il fallimento. In genere si accetta il passivo fallimentare in ogni sua componente senza far fare perizia ad alcuno su tutte le voci relative ai debiti finanziari, perché è difficilissimo venirne a capo e sono necessarie figure specificatamente competenti.

Tra le massime ingiustizie perpetrate ai danni delle imprese non va dimenticata la segnalazione alla Centrale rischi che spesso viene inoltrata anche per saldi di conti viziati da anatocismo: un atto che lede l’immagine e la reputazione dell’imprenditore che si ritrova, così, non solo la limitazione o la preclusione all’accesso ad ulteriore e diverso credito, ma anche la richiesta di rientro da parte delle altre banche.

Sempre sugli interessi, un’altra voce particolarmente fantasiosa è “giorni di valuta”: un tempo, per verificare un assegno mandato all’incasso erano credibili 8/10 giorni che oggi, nell’era dell’informatica, sono un assurdo assoluto perché “leggere” un assegno richiede pochissimo tempo; provo a spiegarmi con un esempio: se Caio deposita un assegno e contestualmente ne stacca un altro, vengono calcolati, per entrambi gli assegni, dei giorni di valuta (interessi che lucra l’istituto); questo significa che il primo assegno sarà considerato depositato qualche giorno dopo ed il secondo staccato qualche giorno prima.
Quindi, perché possano esistere sul serio tutti i giorni valuta che si pagano ogni anno, questo dovrebbe essere, facendo un calcolo approssimativo, di oltre 3000 giorni e non 365, quanti sono i giorni di interessi che vengono remunerati al cliente (e quanto è in realtà lungo un anno).

In chiusura, ma che andrebbe in premessa. È arrivato il momento che il panorama venga innovato: e se è vero che occorre un cambiamento culturale del modo di fare impresa, è altrettanto vero che è la banca a doversi fare attrice della reinterpretazione di un rapporto nuovo. È necessario strutturare una finanza specializzata in grado di valutare e misurare, in termini di numeri, le potenzialità delle imprese e delle loro idee.
È urgente, ormai, che le banche diventino imprenditori esse stesse, valutando nel merito le proposte e investendo sulle medesime, senza fermarsi al semplice computo delle garanzie reali offerte dall’imprenditore.
È (sarebbe) giusto che le Imprese, soprattutto le Pmi, si vedano accompagnate in un processo di sviluppo verso la gestione finanziaria di se stesse, e verso un soddisfacimento necessario dei bisogni formativi degli imprenditori, intraprendendo quel processo di “alfabetizzazione finanziaria” di cui tanto necessitano
… ma questa evidentemente è un’altra storia ancora.