(A firma di Carlo Di Stanislao) –

Ad Agosto avremo molto da ricordare noi aquilani, vittime di un sisma che ci ha tolto gran parte di una città e dei suoi gioielli, impegnati con una “Perdonanza” fra macerie accantonate e, speriamo, con una ricostruzione già in essere, ma certo lunga e difficile.
Percorrendo ciò che resta della santa Cattedrale di Celestino, ricorderemo i nostri defunti, le vite spezzate e cambiate e pregheremo di avere la forza per ricominciare, nel migliore dei modi e nella giusta direzione.
Avremo da ricordare le promesse del Governo e sapremo ciò che è stato o non stato mantenuto, sicchè saremo concentrati su cosa andava fatto, detto e chiesto e, di nuovo, da fare, dire e chiedere per ottenere una rinascita che ci spetta per diritto civile.
Ma non dobbiamo dimenticare, chiusi nelle nostre angosce, che altri problemi attanagliano il mondo e che occorre farsene carico per non risultare periti di fatto entro un lutto senza uscita né altra prospettiva.
Ed allora dovremo pensare (e ricordare) che con Hiroshima, con l’atomica del 16 agosto del 1945, si è cambiato lo stato del mondo e si è iniziata una nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima.
Dovremo pensare che da quel giorno di 64 anni fa, siamo divenuti onnipotenti in modo negativo, poiché potendo essere distrutti ad ogni momento, siamo, di fatto, totalmente impotenti. Indipendentemente dalla sua lunghezza e dalla sua durata, quest’epoca è l’ultima, poiché la sua differenza specifica, la possibilità dell’autodistruzione del genere umano, non può aver fine se non con la fine stessa. Pertanto noi siamo, anche al di fuori del terremoto e dei suoi effetti, quelli della “dilazione”; quelli che esistono ancora, in attesa di un evento di un evento micidiale che vaporizzerà le nostre esistenze.
Questo fatto ha trasformato il problema morale fondamentale: alla domanda “Come dobbiamo vivere?” si é sostituita quella: “Vivremo ancora?”.
Alla domanda del “come vivere” c’e’ – per noi che viviamo in questa proroga – una sola risposta:
“Dobbiamo fare in modo che l’età finale, che potrebbe rovesciarsi ad ogni momento in fine dei tempi, non abbia mai fine; o che questo rovesciamento non abbia mai luogo”.
Poiché crediamo alla possibilità di una “fine dei tempi”, possiamo dirci apocalittici; ma poiché lottiamo contro l”apocalissi da noi stessi creata, siamo (è un tipo che non c’è mai stato finora) “nemici dell’apocalissi”.
La soluzione potrebbe risiedere nello slogan: “non armi atomiche nella situazione politica, ma azioni politiche nella situazione atomica”,
ma poiché la situazione attuale è determinata esclusivamente dall’esistenza di “armi atomiche”, è vero il contrario:
che le cosiddette azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica.
Ciò contro cui dobbiamo imparare a lottare, non è questo o quell’avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi atomici, ma la situazione atomica in sé. Poiché questo nemico è nemico di tutti gli uomini, quelli che si sono considerati finora come nemici dovrebbero allearsi contro la minaccia comune.
Organizzazioni e manifestazioni pacifiche da cui sono esclusi proprio quelli con cui si tratta di creare la pace, si risolvono in ipocrisia, presunzione compiaciuta e spreco di tempo. Attualmente è in auge presso molti governi la tesi prediletta da Jaspers fino a Strass e che suona: “la minaccia totalitaria può essere neutralizzata solo con la minaccia della distruzione totale”.
Sembra che anche un presidente illuminato come Obama la consideri valida. Ma si tratta di un argomento che non regge e per molti svariati motivi:

– La bomba atomica è stata impiegata, e in una situazione in cui non c’era affatto il pericolo, per chi la impiegò, di soccombere a un potere totalitario.

– L’argomento è un relitto dell’epoca del monopolio atomico; oggi è un argomento suicida.

– Lo slogan “totalitario” è desunto da una situazione politica, che non solo è già essenzialmente mutata, ma continuerà a cambiare; mentre la guerra atomica esclude ogni possibilità di trasformazione.

– La minaccia della guerra atomica, della distruzione totale, è totalitaria per sua natura: poiché vive del ricatto e trasforma la terra in un solo Lager senza uscita.
Adoperare, nel preteso interesse della libertà, l’assoluta privazione della stessa, è il non plus ultra dell’ipocrisia.
Oggi dobbiamo pensare che ciò che può colpire chiunque riguarda chiunque. Le nubi radioattive non badano alle pietre miliari, ai confini nazionali o alle “cortine”.
Così, nell’età finale, non ci sono più distanze.
Ognuno può colpire chiunque ed essere colpito da chiunque.
Se non vogliamo restare moralmente indietro agli effetti dei nostri prodotti (che non ci procurerebbe solo ignominia mortale, ma morte ignominiosa), dobbiamo fare in modo che l’orizzonte di ciò che ci riguarda, e cioè l’orizzonte della nostra responsabilità, coincida con l’orizzonte entro il quale possiamo colpire o essere colpiti; e cioè che diventi anch’esso globale.
Non ci sono più stranieri ma solo “vicini”.
Se diamo fuoco alla nostra casa odierna, il fuoco si appicca anche al futuro e con la nostra cadono anche le case non ancora costruite di quelli che non sono ancora nati.
Ciò che conferisce il massimo di pericolosità al pericolo apocalittico in cui viviamo, è il fatto che non siamo attrezzati alla sua stregua, che siamo incapaci di rappresentarci la catastrofe, molte peggiore di quella pure devastante di un terremoto.
Raffigurarci il non-essere (la morte, ad esempio, di una persona cara) è già di per sé abbastanza difficile; ma è un gioco da bambini rispetto al compito che dobbiamo assolvere come apocalittici consapevoli.
Poiché questo nostro compito non consiste solo nel rappresentarci l’inesistenza di qualcosa di particolare, in un contesto universale supposto stabile e permanente, ma nel supporre inesistente questo contesto, e cioè il mondo stesso, o almeno il nostro mondo umano. Questa “astrazione totale” (che corrisponderebbe, sul piano del pensiero e dell’immaginazione, alla nostra capacità di distruzione totale) trascende le forze della nostra immaginazione naturale. Come homines fabri (capaci di ogni costruzione o distruzione), dobbiamo impegnarci per rigettare da noi e in ogni parte del mondo il pericolo o il rischio del nucleare.
Lo “scarto prometeico”, la situazione morale dell’uomo odierno, la frattura che divide l’uomo (o l’umanità) non passa, oggi, fra lo spirito e la carne, fra il dovere e l’inclinazione, ma fra la nostra capacità produttiva e la nostra capacità immaginativa (e noi lo sappiamo, alle prese con la lentezza dell’emergenza o prima e della ricostruzione poi, resa più acuta dalla velocità attuativa dei nostri pensieri).
Va anche detto che il richiamato “scarto”, non divide solo immaginazione e produzione, ma anche sentimento e produzione, responsabilità e produzione.
Si può forse immaginare, sentire, o ci si può assumere la responsabilità, dell’uccisione di una persona singola; ma non di quella di centomila. Quanto più grande è l’effetto possibile dell’agire, e tanto più è difficile concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto più grande lo “scarto”, tanto più debole il meccanismo inibitorio.
Liquidare centomila persone premendo un tasto, è infinitamente più facile che ammazzare una sola persona.
Al “subliminare”, noto dalla psicologia (lo stimolo troppo piccolo per provocare già una reazione), corrisponde il “sopraliminare”: ciò che è troppo grande per provocare ancora una reazione (per esempio un meccanismo inibitorio).
Poiché il nostro orizzonte vitale (l’orizzonte entro cui possiamo colpire ed essere colpiti) e l’orizzonte dei nostri effetti è ormai illimitato, siamo tenuti, anche se questo tentativo contraddice alla “naturale ottusita’” della nostra immaginazione, a immaginare questo orizzonte illimitato.
Nonostante la sua naturale insufficienza, è solo l’immaginazione che può fungere da organo della verità. In ogni caso, non è certo la percezione. Che è una “falsa testimone”: molto, ma molto più falsa di quanto avesse inteso ammonire la filosofia greca. Poiché la sensibilità è – per principio – miope e limitata e il suo orizzonte assurdamente ristretto. La terra promessa degli “escapisti” di oggi non è la fantasia, ma la percezione. Di qui il nostro legittimo disagio e la nostra diffidenza verso i quadri normali (dipinti, cioè, secondo la prospettiva normale): perché, benché realistici in senso tradizionale, sono irrealistici, giacché in palese contrasto con la realtà del nostro mondo dagli orizzonti infinitamente dilatati.
La viva “rappresentazione del nulla” non si identifica con ciò che si intende in psicologia per “rappresentazione”; ma si realizza in concreto come angoscia, lo abbiamo e lo stiamo sperimentando.
Ad essere troppo piccolo e a non corrispondere alla realtà e al grado della minaccia, è quindi il grado della nostra angoscia.
Noi viviamo nell’epoca della minimizzazione e dell’inettitudine all’angoscia, sicché l’imperativo di allargare la nostra immaginazione significa, in concreto, che dobbiamo estendere e allargare la nostra paura. L’imperativo di allargare la portata della nostra immaginazione e della nostra paura, finché corrispondano a quella di ciò che possiamo produrre e provocare, si potrà rivelare continuamente irrealizzabile. E non è nemmeno detto che procedendo per questi tentativi, potremo davvero fare qualche passo avanti.
Ma anche in questo caso non dobbiamo lasciarci spaventare; poiché il fallimento ripetuto non depone contro la ripetizione del tentativo; anzi, ogni nuovo insuccesso è salutare, poiché ci mette in guardia contro il pericolo di continuare a produrre ciò che non possiamo immaginare (e questo anche nella ricostruzione).
Ai miei concittadini che, paralizzati dalla fosca necessità di pensare a noi stessi, si perdono di coraggio e di interesse per altri problemi , consiglio comunque la massima cinica:

“Se siamo disperati, che ce ne importa? Continuiamo come se non lo fossimo!”.