(A firma di Antonio Cappelli, Direttore Confindustria L’Aquila) –

E mi sembra in linea con quello che era ormai L’Aquila: guardava solo al suo passato, del quale aveva fatto il proprio presente attraverso messe in scena quasi quotidiane di commemorazioni, ricordi, tributi, riscoperte di carte o personaggi… Non si finiva più, era un trend inarrestabile, nel quale venivano convogliate, disperdendole, anche le energie di giovani, di studenti e di studiosi.
Il tono può sembrare irriguardoso, soprattutto di fronte a tanta disgrazia, ma, al contrario, tradisce amarezza e delusione, perché tanto patrimonio culturale avrebbe dovuto essere un terreno di coltura dal quale generare eccellenze, non il polmone d’acciaio nel quale essere “clinicamente vivi”.
Ho visto e letto di come recuperare, quanto recuperare, come ricostruire tutto esattamente come prima (promessa rassicurante per tutti), di new town, di un bel cantiere di restauro da sfamare per i prossimi sessant’anni…
Ma non ho sentito nessuno progettare L’Aquila come l’Urbe che non sarebbe mai riuscita a decidere di essere: una Città del Terzo Millennio.
La Polis nella quale il tessuto sociale si potrebbe riconnettere attraverso la conservazione delle poche emergenze architettoniche recuperabili nel tempo di due/tre anni e la costruzione contestuale di qualche edificio avanguardistico, che ci faccia guardare dal mondo: architetture avveniristiche, spazio verde immediato, quello del quotidiano, quello delle piazze, con alberi dappertutto, scuole e centri direzionali energeticamente autonomi, padiglioni espositivi, spazi pubblici, un museo della scienza che stia lì a indirizzare i nostri ragazzi alla cultura scientifica, edifici storici capaci di riciclare l’acqua reflua per il proprio riuso, tapis roulant per chi non può camminare, trasporti elettrici e nessuna macchina.
È vero che il centro storico va salvato, ma pensare di salvarlo per intero significa uccidere la città (inseguendo quella vecchia corrente di pensiero della conservazione, per la quale il monumento è finalizzato a se stesso e non alla fruizione della collettività attraverso i secoli, e i cui danni in Italia conosciamo benissimo), perché nelle more dei lavori tutti andranno via, come già sta accadendo e, nell’aspettativa di una riappropriazione della città, non nascerà nulla di bello in nessun posto, solo un’area metropolitana venuta fuori convulsamente da un’emergenza che aggredisce il paesaggio e l’ambiente – fino ad oggi più o meno protetti e sottratti all’edificazione – tristissima e destinata al degrado e alla marginalità sociale.
Conservare solo alcune emergenze architettoniche, quelle meno devastate, e costruire al contempo opere avveniristiche secondo quell’ ”effetto Guggenheim” che ci ha consegnato Las Vegas, o Dubai… con un progetto condiviso che ri-qualifichi l’attuale assetto, migliorando le condizioni di vita degli abitanti e, naturalmente, potenzi le infrastrutture in relazione alla funzione economica, che è quella industriale (soprattutto in vista della zona franca) e turistica (cultura, patrimonio architettura, ambiente, artigianato, prodotti tipici…), consentirebbe un secondo processo di identificazione: se oggi l’Aquilano ha già una consapevolezza del valore identitario del centro rappresentato da quei palazzi, quelle chiese e quei vicoli, partecipando, dibattendo e materializzando un progetto, arriverà all’appropriazione delle nuove opere nelle quali si identificheranno, lui e i suoi figli, esattamente come è accaduto per il patrimonio urbano preesistente.
La nuova città sarà depositaria dei valori di identità e di memoria collettiva di un passato lontano e di un presente che, per le generazioni future, rappresenterà il punto di cucitura tra ciò che era prima del 6 aprile e ciò che è stato dopo. In quella cucitura, vedo le costruzioni architettoniche avveniristiche in mezzo alle quali il cittadino del 2020 sarà cresciuto, e la città antica con i suoi palazzi che svettano solidi di storia e di appartenenza al passato: le opere così concepite terranno le generazioni future nel III millennio ma, soprattutto, insegneranno il coraggio del cambiamento, dell’audacia, la voglia di esserci in prima persona e con il fare.
Già prima del sisma, L’Aquila pativa una crisi locale, non solo di tipo economico, che la poneva nell’affannosa ricerca del ruolo di città capitale regionale.
Per questo, oggi, ci troviamo non solo a dover ri-costruire i luoghi e le architetture civili e religiose che significano i forti valori identitari che in essi sono materializzati ma anche a dover individuare nuove centralità, secondo un’Agenda programmatica che avrebbe dovuto essere redatta già vent’anni fa. Adesso vanno cercati temi sociali collettivi in base ai quali costruire un’Urbe strutturata non più su un’ideologia fondata su un paradigma individualista o lobbistico, ma su istanze che appartengano a tutti, come ad unico soggetto collettivo e ad un unico soggetto politico, esattamente come un tempo l’istanza religiosa, nella quale tutti si riconoscevano, si è materializzata nella cattedrale e poi quella politica nel palazzo civico.
Ebbene, ora dobbiamo cercare un’istanza collettiva comune, per riprodurre ancora la stessa dialettica di tutta la nostra storia (ma non la stessa città!), tal che le generazioni future si potranno riconoscere in essa nonostante i temi collettivi che risulteranno modificati quali variabili del tempo: chi non è ancora orgoglioso, anche dopo mille anni, della cattedrale edificata secoli fa nonostante oggi l’istanza sociale dominante non sia più quella religiosa?
Quella che propongo come istanza collettiva, e che vorrei si condividesse, è un polo turistico di forte attrazione, che ci ponga al centro dell’attenzione del mondo, un mondo che ora ci guarda per la disgrazia che ci ha colpiti ma che può continuare a guardarci per l’originalità e l’audacia con la quale ci mettiamo a costruire lo sviluppo economico e turistico.
Nessuna paura: la voglia di esplorare sentieri nuovi è perfettamente in armonia con la riconoscenza nei confronti della tradizione, si chiama cultura umanista, tratto europeo e forse specificatamente italiano. Ma ci vuole un entusiasmo contagioso: per le idee forti e chiare i soldi si trovano, e di soldi ce ne sono perché adesso l’Europa si occupa di noi con un’attenzione che, se non avessimo avuto una tale disgrazia, ci sarebbe negata. Vanno bene i litigi e le discussioni, sono sintomo di carattere, ma cerchiamo la convergenza, che nessuno tradisca la città, nessun sindaco, nessuna istituzione, non finiamo in beghe, manipolate dalle falsificazioni ideologiche di chi vuole coltivare il proprio orticello, ordiniamo quello che è rimasto ed inventiamo il resto con lo scopo chiaro di migliorare le condizioni di vita che avevamo e potenziare la funzione economica del capoluogo.
Se il passato è un rifugio sicuro, per la qual cosa rappresenta una costante tentazione, il futuro è l’unico posto dove possiamo andare, almeno se vogliamo andare da qualche parte…

Penso al nostro palazzo del settecento vicino ad un avanguardistico museo della scienza, che sia un esempio di architettura ad impatto ambientale zero, energeticamente autonomo, magari costruito anche con le macerie: il museo di Vancouver è un esempio (diffondere conoscenza scientifica, della quale in Italia siamo davvero carenti, e fare business con la cultura sarebbe un insegnamento per tutto il nostro Paese); penso alla chiesa medioevale in pietra e malta vicino ad un esperimento di design enorme e significativo, che svetta verso il cielo mozzando il fiato: il Bigo o la Passeggiata lungo la palazzina Millo, a Genova, dicono come si possa restituire ad una città il passato, il presente ed il futuro con un solo grande progetto; penso al trenino di Sidney, che vedi solo se stai a testa in su perché gira in mezzo ai palazzi a 15 metri da terra, o al suo teatro, l’Opera House, che il mondo dopo quarant’anni sta ancora ad ammirare incantato: icone non solo della capitale, ma dell’intera Australia.
Dunque, la consapevolezza del valore storico ed identitario del centro ci dovrebbe indurre a non decidere per un cantiere aperto per i prossimi sessant’anni, che stia lì a recuperare ogni centimetro o millimetro di affresco e chissà cos’altro, ma a consegnare ai secoli venturi un centro che sia antico e al contempo moderno, modernità che un giorno sarà storia, testimonianza di una tragedia indimenticata e indimenticabile, collante tra il centro che fu ed il centro che è e sarà, liaison tra padri e figli, tra generazioni e generazioni, che declini quella stessa funzione che per secoli hanno svolto le piazze e le chiese.
Anche le infrastrutture stradali, a causa della cui mancanza L’Aquila patisce l’isolamento e la crisi, possono arrivare ad offrire immagini spettacolari, attirando anch’esse la loro parte di visitatori: quante città hanno legato la loro celebrità ad un ponte? Il viadotto di Millau è il ponte veicolare più alto del mondo, ritenuto un’opera d’arte per la sua integrazione nel paesaggio, costruito in 4 anni e inaugurato un mese prima della data prevista per il completamento della costruzione, ha un’affluenza record di turisti, e la aveva fin dal momento dell’apertura del cantiere, è stata la vera promessa nazionale e internazionale contro il traffico: promessa mantenuta.
Insomma, non saremmo i primi ad affermarci sulla scena nazionale con architetture audaci nelle forme e spettacolari alla vista, ma gli unici nell’avere tutto ciò tra palazzi e cortili antichi, tra chiese e vicoli che raccontano i secoli del Paese dell’Arte, di quell’Italia che ha la maggiore densità di opere d’arte e beni culturali di tutto il mondo.
Le culture che si sviluppano hanno sempre costruito, qui non siamo riusciti neanche a conservare e, mentre ci riempivamo la bocca, e non le agenzie internazionali, di pacchetti turistici, la città moriva e poi è crollata.
Questa è in breve la nostra storia recente.
E ad un progetto di eccellenza del design italiano preferiamo la manipolazione mediatica delle beghe di lobby provincialotte, la mediocrità degli ordini professionali che si contendono una fantomatica ricostruzione nella speranza di un business di categoria.
Abbiamo degli architetti italiani che il mondo si contende, che nel mondo disegnano la storia, che con il loro genio sono andati oltre l’architettura, che conoscono il paradigma del vivere italiano, che per miracolo sono italiani, non giapponesi o americani: chi meglio di loro potrebbe ricostruire un’identità di città italiana e, al contempo, internazionale e ridare vita a tutto quanto abbiamo perso e non avremmo potuto sognare senza il 6 aprile?
Se l’autorevolezza delle Istituzioni ha potuto portare all’Aquila il G8, ancor più potrà portare uno di quelli, che non deve solo recare genio creativo ma qualcosa che dalle nostre parti è introvabile: capacità di condivisione con la gente, intorno ad un progetto da discutere in piazza.
Come si usa in democrazia.