(A firma di Ferdinando di Orio, Magnifico Rettore Università dell’Aquila) –

Non riesco proprio a trovare motivi di
entusiasmo nella possibilità che l’art. 16
del decreto legge sugli interventi urgenti
per l’economia concede agli Atenei di
trasformarsi in fondazioni di diritto
privato.
Anzi, per dirla tutta, sono molto
preoccupato. Ancora una volta, infatti, si
fa leva strumentalmente su un luogo
comune ideologico la concorrenza tra
Atenei quale fattore di sviluppo per
giustificare una trasformazione
privatistica del sistema universitario, per
il momento lasciata alla libera iniziativa
degli Atenei, che coincide di fatto con la
liberalizzazione degli assetti istituzionali
dell’Università italiana.
In quella che è stata definita una riforma
“s o f t” , ne l se n s o ch e of f r e
“un’opportunità a chi la vorrà cogliere
senza caricare di alcun obbligo tutti gli
altri”, in realtà si cela il rischio concreto
dell’implosione del sistema universitario
in una serie di sottosistemi paralleli,
lasciati a sé stessi in una sorta di
darwinismo culturale e finanziario, che è
illusorio possa riuscire a garantire il
pieno svolgimento della mission
pubblica che il dettato costituzionale affida all’Università.

La possibilità di una trasformazione privatistica degli Atenei è stata inoltre interpretata come la logica conseguenza della declinazione in termini operativi delle categorie di autonomia e responsabilità istituzionale dell’Università. E’ questa una posizione pericolosa, che deriva da una interpretazione non corretta della dimensione istituzionale dell’autonomia universitaria, che è innanzitutto autonomia dell’Università e poi è autonomia delle Università.
Proprio l’unitarietà istituzionale, infatti, garantisce l’autonomia dell’Università, nella sua sostanziale indipendenza e autorevolezza nei confronti dell’esecutivo (di ogni colore politico), d e l l e a l t r e i s t i t u z i o n i , d e l l e organizzazioni imprenditoriali e sociali, dell’opinione pubblica, del Paese nella sua globalità.
È difficile, se non utopistico, pensare che una serie istituzionalmente multiforme di Atenei possa riuscire a proporsi
come interlocutore forte ed
autonomo nei confronti del
mondo della politica che ha
dimostrato in questi anni di non
volere comprendere i problemi
dell’Università o di quello
dell’economia che oggi sembra
troppo interessato a
marcare differenze
all’interno del sistema universitario, forse per poter gestire da posizioni di forza rapporti privilegiati ed elettivi sulla base di esclusivi interessi finanziari.

Non è un caso, allora, che l’art.16 del decreto legge riprenda sostanzialmente la posizione di Confindustria, quando chiede di attribuire alle Università poteri decisionali in materia di: assunzione di nuovi docenti; fissazione delle remunerazioni e determinazione degli obblighi dei docenti, ricercatori e del personale non docente; curriculum degli studi, rette di frequenza, dimensionamento e criteri di ammissione degli studenti a ogni livello.
Anche l’attribuzione dei fondi pubblici alle Università in forma concorrenziale determinerebbe una ulteriore discriminazione tra Atenei, che già oggi presentano situazioni economico-finanziarie molto diversificate, mettendo a rischio di sopravvivenza soprattutto i piccoli Atenei e quelli del Mezzogiorno che, al contrario, meriterebbero un piano strategico di finanziamenti ad essi espressamente dedicati.
Ciò che certifica, a mio avviso, la qualità del sistema formazione/ricerca/sviluppo di un paese non è la presenza di pochi Atenei eccellenti, ma piuttosto la sua capacità “media” di essere competitivo tra i paesi a sviluppo avanzato.

Se è vero che i singoli Atenei italiani non sono ai vertici delle classifiche internazionali, è anche vero tuttavia che il nostro paese ha una buona collocazione in Europa e nel mondo come numero delle pubblicazioni e soprattutto come numero di pubblicazioni per ricercatore. Sono solo alcune evidenze che dimostrano che la ricerca nel nostro paese, che si
svolge sostanzialmente all’interno
delle Università, è competitiva a livello
internazionale, soprattutto in
considerazione delle poche risorse
investite in generale (il 40% in meno
rispetto alla media EU-25 come spesa
in R&D in % del PIL) e in particolare
dalle imprese (l’Italia è al terz’ultimo
posto dei paesi OCSE, con appena il
39.7% di investimento in R&D
finanziato dalle imprese a fronte di una
media dell’EU-25 del 54.2%).
Queste evidenze dovrebbero spingere
a non rinunciare pregiudizialmente allo
sforzo di tenere tutto il sistema
universitario all’interno di un’unica
prospettiva di sviluppo, sottoposta
logicamente a chiari e trasparenti
meccanismi valutativi. E’ illusorio
pensare che, puntando solo su pochi
Atenei di qualità liberi e liberati da ogni
imposizione nazionale”, si possa
davvero superare il vero dramma del
nostro paese, rappresentato dalla
differenza crescente tra Nord e Sud.
Se si prende, infatti, un dato di sintesi di
vari indicatori dell’innovazione, si
constata una perdita del Sud rispetto al
Nord, dal 2003 al 2006, del 30%.

Il vero problema del nostro sistema
universitario è legato, a mio avviso, alla
carenza di risorse finanziarie e di
personale. Invece di aumentarle, il
Governo decide di ridurre il fondo di
finanziamento ordinario di 500 milioni
di euro in tre anni e di consentire per il
triennio 2009-2011 la copertura solo
del 20% dei pensionamenti, mentre gli
scatti di anzianità biennali dei docenti
universitari diventeranno triennali dal
primo gennaio 2009, pur mantenendo
lo stesso importo…