(A firma di .) –

Dal suo osservatorio privilegiato, quale giudizio dà dell’attuale dibattito che si sta svolgendo intorno ai problemi dell’Università italiana?

Mi sembra necessario sgombrare il campo dall’equivoco che sia possibile affrontare la questione della riforma dell’Università, solo ripensandone alcuni aspetti della governance, cioè degli strumenti, senza una previa definizione delle relative finalità.
Un equivoco che viene alimentato da pregiudizi politici, ampiamente diffusi a livello massmediatico, ai quali fanno riscontro impostazioni “minimaliste”, per lo più interne al mondo dell’Università, che sembrano aver rinunciato all’idea di un progetto complessivo di riforma in funzione dei fini che il dettato costituzionale e la società stessa affida all’Università.
Il dibattito non dovrebbe, invece, prescindere dalla considerazione delle finalità dell’Università pubblica: offrire una formazione superiore al maggior numero dei cittadini e produrre una ricerca non esclusivamente strumentale alle necessità di innovazione del sistema produttivo.

Il Governo, con il Decreto Legge 180, sembra aver mandato un segnale di maggiore attenzione verso il mondo dell’Università. Lei come lo giudica?


Non c’è dubbio che il Decreto Legge 180 abbia rappresentato un ravvedimento del Governo, peraltro parziale e del tutto insufficiente, il cui merito va ascritto, ed è bene sottolinearlo, alla mobilitazione delle Università e, soprattutto, degli studenti.
Pur presentando alcuni elementi di novità degni di attenzione, non modifica tuttavia l’impostazione generale dell’azione governativa. La Legge 133 è rimasta inalterata, come anche i tagli ai finanziamenti. Sono introdotte modifiche sostanziali ai concorsi universitari, senza alcun coinvolgimento del mondo dell’Università, con modalità che sembrano avere l’effetto di aumentare il deprecabile fenomeno del precariato.
Anche le misure per la qualità del sistema universitario non entrano in realtà nel merito della questione, ma si limitano a condizionare una quota di finanziamenti ad una non meglio specificata valutazione di qualità dei processi formativi.
Il previsto aumento del finanziamento per il diritto allo studio, non affronta il vero problema della revisione profonda della relativa normativa e rischia di non avere alcun effetto sulle concrete possibilità di accedere alla formazione per gli studenti capaci e meritevoli, in presenza di una generalizzata compromissione della funzionalità del sistema universitario pubblico causata dai tagli ai finanziamenti.
A ciò si aggiunga il fatto che il Decreto Legge prevede una discriminazione tra Atenei, alcuni dei quali non potranno procedere all’assunzione di personale e, anche per gli Atenei che potranno farlo, sono previste pesanti limitazioni nelle possibilità di turn-over del personale.

Quali sono, secondo lei, i punti più critici dell’azione dell’attuale governo sull’Università?


Le riforme del Governo sembrano corrispondere al principio liberista di spostare il finanziamento del sistema formativo dal contribuente all’utente, nell’assunzione che quest’ultimo, pagando direttamente le rette agli Atenei, sia nelle condizioni di esigere un servizio adeguato e ciò di per sé garantisca una riforma compiuta di tutto il sistema, favorendo la concorrenza tra le Università e selezionando pochi Atenei eccellenti.

Che questa assunzione sia in realtà una presunzione, è dimostrato in modo eclatante da quanto sta avvenendo proprio in questi giorni in tutto il mondo, con il fallimento epocale di un modo di interpretare il settore che meglio dovrebbe corrispondere a logiche liberiste, vale a dire il mercato finanziario.

Ancora una volta si fa leva strumentalmente sul luogo comune ideologico della concorrenza tra Atenei quale fattore di sviluppo, per giustificarne una trasformazione privatistica, che per il momento è lasciata alla loro libera iniziativa, ma che coincide con la liberalizzazione degli assetti istituzionali dell’Università.

Ciò che colpisce maggiormente, è questa volontà ostinata di demarcare un confine tra Atenei virtuosi e non virtuosi senza entrare in una valutazione attenta e oggettiva dell’adempimento delle loro funzioni istituzionali, ma limitandosi all’esclusivo rapporto tra FFO e percentuale dei costi per il personale.

Senza per questo avallare sperperi di risorse o debiti di bilancio, rispetto ai quali – per evitare ogni possibile equivoco – l’Università dell’Aquila è immune, la virtuosità di un Ateneo non può che discendere dalla qualità della sua didattica, dal significato della sua ricerca, dalla utilizzazione piena delle risorse umane, dal riconoscimento del lavoro come un diritto inviolabile e non come uno spreco eliminabile.

Ha accennato, prima, ad impostazioni minimaliste interne al mondo dell’Università? A cosa si riferisce, in particolare?


Mi riferisco, ad esempio, all’iniziativa denominata A.Q.U.I.S (Associazione per la Qualità delle Università Italiane), che ha individuato un gruppo di Atenei in grado di corrispondere ad alcuni requisiti ritenuti di qualità. Al di là del merito delle proposte, il risultato al momento raggiunto è stato solo di creare una frattura all’interno del sistema universitario. Il fondamentale tema della valutazione è stato strumentalmente utilizzato per auto-definire, in modo discutibile soprattutto perché parziale, un’eccellenza in grado di qualificare di per sé un nuovo interlocutore istituzionale, che si propone come elemento di pressione lobbistica nei confronti del sistema politico.
Emerge un’impostazione che propone una sorta di «sistema a geometria variabile», in cui non tutto può essere fatto da tutti allo stesso modo, con possibilità di articolazioni e aggregazioni di gruppi di Atenei su basi diverse, territoriali o tematiche. Con l’inevitabile conseguenza di una frammentazione degli interessi dell’Università e della loro possibile rappresentanza istituzionale e della creazione di una multiforme e anarcoide serie di lobbies particolaristiche, lasciate a se stesse in una sorta di darwinismo culturale e finanziario, che è illusorio possa riuscire a garantire il pieno svolgimento della mission che il Paese affida all’Università.

Quali dovrebbero essere, dunque, le caratteristiche di un progetto di riforma di tutta l’Università italiana?


Bisognerebbe rifuggire da una impostazione che ritiene possibile migliorare il sistema puntando solo su pochi Atenei eccellenti. Nella prospettiva della salvaguardia di un’istituzione universitaria unitaria e autonoma, provo qui a raccogliere alcuni punti qualificanti che costituire la piattaforma di un progetto complessivo di riforma. L’Università pubblica deve costituire il cardine del sistema universitario, ad essa devono essere destinate risorse pubbliche, la cui attribuzione deve essere basata sulla valutazione e sulla verifica dei risultati. All’istruzione superiore deve aver accesso il maggior numero possibile di giovani, e la relativa offerta didattica deve essere oggetto di valutazione, soprattutto in questa delicatissima fase di attuazione della 270. La competizione necessaria tra le Università pubbliche deve sempre porsi in un quadro, nazionale e regionale, di sviluppo unitario. In tal senso combattuto ogni tentativo di distinzione tra “research university” “teaching university”, perché proprio ’integrazione tra ricerca e didattica rappresenta la caratteristica fondante dell’istituzione universitaria. Deve essere ripensato il ruolo delle Università private, il cui numero non può ulteriormente aumentare e il cui finanziamento non può avvenire a scapito delle Università pubbliche. Deve essere fermata la proliferazione di Università telematiche, che attualmente sono di gran lunga superiori a quelle presenti in altri paesi. L’implementazione dell’attuazione di un effettivo diritto allo studio in tutto il Paese deve prevedere, oltre all’attribuzione di maggiori risorse, anche il ripensamento della relativa normativa vigente.
Per quanto si possa e si debba continuare a prefigurare forme contrattuali iniziali di formazione, il primo livello della docenza piena deve essere stabile e senza forme di precarizzazione, con la previsione di regole per l’accesso diverse da quelle per la progressione della carriera accademica. Deve essere riconosciuto il ruolo di docente al ricercatore universitario, la cui figura è già di fatto, e dovrà diventarlo pienamente e legittimamente in futuro, il primo livello della docenza.
Devono essere colte e sviluppate le potenzialità legate alle Fondazioni universitarie e a tutti gli strumenti individuati per la vone economica dei nuovi saperi e per la loro trasformazione in risorsa strategica per il territorio (brevetti, spin-off, ecc.), evitando tuttavia di connotare in senso aziendalistico tutto il sistema della ricerca universitaria.

Su questi punti credo possa essere raccolto un ampio e diffuso consenso all’interno dell’Università. Basterebbe soltanto che il sistema politico si mettesse finalmente in un atteggiamento di ascolto …