(A firma di Carlo Di Stanislao) –

Parlare di morte fa ridere, di un riso forzato e osceno.
Parlare di sesso non provoca più nemmeno questa reazione: “il sesso è legale, solo la morte è pornografica”, scriveva Jean Baudrillard. Forse è per questo che in carcere ci si toglie la vita con tanta frequenza.
È la tesi di un libro intitolato ICome si conciliano i decessi in carcere dovuti alla malasanità, all’alto numero di suicidi, oppure le migliaia di atti di autolesionismo e scioperi della fame col dettato costituzionale che cita espressamente il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e le finalità rieducative della pena?
Per chi conosce il mondo opaco degli universi concentrazionari: carceri, centri d’identificazione ed espulsione, Opg e sezioni psichiatriche dove si praticano Tso senza controllo e sono tornati in auge i letti di contenzione in spregio della riforma?
Centoquarantasei sono le morti in carcere dal 1° gennaio al 31 ottobre di quest’anno, fra cui 61 suicidi, 21 volte di più che nella popolazione generale. Secondo i dati di “Ristretti Orizzonti”, “ogni 4 suicidi uno muore in cella di isolamento: con il progressivo inasprimento del regime detentivo si assiste, infatti, ad un notevole aumento dei casi di suicidio”. Non solo: “I detenuti sottoposti al regime del carcere duro (art. 41bis) si uccidono con una frequenza 4,45 volte superiore al resto della popolazione carceraria”. Soffrono i detenuti, ma soffre anche la polizia penitenziaria, che nell’ultimo mese ha pagato con tre suicidi lo stress di un lavoro spesso poco riconosciuto.
Alla base della sofferenza del pianeta carcere è senza dubbio la condizione di sovraffollamento. “Con 65mila detenuti in carceri che ne possono contenere a mala pena 43mila- rileva Donato Capece, segretario del sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) – accadono purtroppo questi episodi. Come può del resto un agente, da solo, controllare 80-100 detenuti?”. E ancora: l’80% delle 206 galere italiane hanno oltre un secolo di vita (di queste il 20% risale addirittura al Medioevo).
“Da un lato cresce il dramma del sovraffollamento dietro le sbarre – spiega Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione “Antigone” – dall’altro resta fermo il numero di educatori e assistenti sociali. La conseguenza? I detenuti restano sempre più soli ed è più facile che le storie di disperazione finiscano male”. Insomma, secondo Gonnella, “il numero crescente dei suicidi è la cartina di tornasole di un carcere malato, mentre i casi di violenza fanno stabilmente da filo rosso”.
Ma soprattutto vi è la mentalità, a destra e a sinistra, che il carcere sia una sorta di discarica oscena, in cui confinare e dimenticare coloro che hanno sbagliato e debbono pagare. “In sezione un detenuto non si massacra. Si massacra sotto… Abbiano rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto”; sono queste le frasi pronunciate da un agente del carcere di Castrogno, in provincia di Teramo, registrate non si sa ancora da chi su un cd e fatto recapitare alla redazione del quotidiano locale “La Città”. La notizia si è letta il 3 novembre su “La Stampa”. È chiaro che si parla di un pestaggio e la voce sarebbe quella di Giovanni Luzi, comandante di reparto degli agenti della polizia penitenziaria di Castrogno.
Va riconosciuto che i mutamenti sociologici intervenuti nella popolazione detenuta, oggi più fragile che in passato (alto numero di tossicodipendenti e stranieri); i mutamenti culturali (suicidarsi è meno disonorevole); la frantumazione della coesione; la struttura monocellulare che ha sostituito le camerate e quindi introdotto più solitudine, ha reso il problema più acuto. Rilievi socio-culturali importanti che ricordano in parte le modificazioni che hanno travolto la classe operaia. Ora questi cambiamenti, sovrapposti alle innovazioni normative, delineano un qualcosa che sa molto di politico.
La Legge Gozzini (del 1986) ha spezzato lo sviluppo di rivendicazioni collettive, rendendo la detenzione una vicenda fondamentalmente singola, “privata”, legata a una logica premiale, paternalistico-inquisitoriale.
L’aggressività o il conflitto hanno così mutato di segno rivolgendosi contro degli attori, i detenuti, divenuti soggetti nel senso di assoggettati. La fine della parola politica, della stagione delle lotte carcerarie ha lasciato come unica via l’impolitica dei corpi. Le morti in circostanze “non definite” sono troppe per non aprire una profonda riflessione sull’argomento. A partire da un fatto politico fondamentale: il reato di tortura. Nel nostro Paese, nonostante anni di tentativi, non si riesce a varare una legge che lo preveda.
L’ultima volta in cui si è provato ad introdurlo è stato il 5 febbraio scorso al Senato, durante le votazioni riguardanti il “Pacchetto sicurezza 2”.
L’aula, tuttavia, ha bocciato l’emendamento sostenuto dalla sen. Poretti e dal sen. Perduca (radicali) e da altri 70 parlamentari di opposizione e maggioranza. In precedenza una proposta di legge era stata approvata alla Camera nel dicembre 2006, dopo un accordo bipartisan, e mandata al voto dell’aula dalla commissione giustizia del Senato nel luglio 2007. Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che si batte per i diritti nelle carceri, disse a quel tempo: “Avrebbe dovuto approdare in aula nei giorni della crisi, ma è stata lasciata morire.
È necessario che il prossimo Parlamento metta tra le sue priorità l’approvazione del provvedimento che introduce il reato di tortura in Italia”. Invece si è subito votato il “lodo Alfano”. Quando la sicurezza diventa un pretesto per ottenere più voti e non per favorire il progresso sociale e favorire la reintroduzione nella società di chi ha commesso reati, questi sono i risultati.
Accorgersene tardi significa, drammaticamente, correre tutti rischi maggiori.