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Sono giovani uomini che non superano i 35 anni di età, non sono sposati e provengono soprattutto dai paesi dell’Est europeo ma anche da Pakistan, Bangladesh, Cina, Egitto e Marocco. Guadagnano tra i 500 e il 600 euro al mese per oltre dieci ore consecutive di lavoro. Ciò nonostante non si percepiscono mai (o quasi mai) come vittime.
È questo l’identikit dei lavoratori gravemente sfruttati così come emerge da una ricerca realizzata in queste mesi dal Parsec sul lavoro gravemente sfruttato sull’intero territorio nazionale e nella città di Roma in particolare. Un fenomeno sotto gli occhi di tutti, ma molto sfuggente e difficile da definire e da monitorare.
Secondo l’indagine Parsec, i casi di grave sfruttamento lavorativo registrati fino a maggio 2007 in Italia dalle organizzazioni non governative e da alcuni enti locali sono circa 300. Si tratta di persone arrivate in Italia seguendo le rotte tradizionali dell’emigrazione che escludono la presenza delle cosiddette organizzazione a doppia sponda, ovvero quelle organizzazioni che gestiscono tutto il ciclo dello sfruttamento: dal reclutamento al viaggio fino all’inserimento in ambiti di lavoro particolarmente gravosi.

Solo una volta arrivati in Italia i migranti entrano nei circuiti dello sfruttamento lavorativo grave, accettando lavori dequalificanti, duri e privi di qualsiasi tutela e garanzia. È proprio il loro stato di irregolarità a ridurre drasticamente le possibilità di negoziazione di questi lavoratori tanto da considerare la loro condizione lavorativa come inevitabilmente legata allo stesso processo migratorio.
Per spezzare la catena dello sfruttamento non di rado è necessario un evento traumatico, come un incidente sul lavoro, un’ispezione da parte delle autorità competenti o anche un’iniziativa sindacale.