(A firma di Mirco Gazzera, tratto da http://economia.iobloggo.com) –

Stiamo vivendo un periodo di forte crisi nel quale la parola “riforma” sta divenendo un termine di grande attualità. Si parla di riforma delle istituzioni, di riforma della giustizia, di riforma della scuola e dell’università e anche della necessità di una grande riforma del sistema fiscale italiano.
Tremonti, ministro dell’economia e delle finanze ha aperto un dibattito sui limiti dell’attuale modello fiscale italiano, rendendo nota l’intenzione di cambiare radicalmente il sistema, introdotto da Bruno Visentini nel corso degli anni settanta, senza però definire i tempi dell’intervento. Non c’è dubbio che il sistema fiscale vigente oggi in Italia è basato su peculiarità della vita economica e del contesto produttivo, tipiche dello scorso secolo e ormai ampliamente superate.
Se una volta i lavoratori dipendenti avevano una stabilità del reddito lungo una vita lavorativa predefinita che andava dall’assunzione al pensionamento, ora è ben difficile trascorrere tutta la vita lavorando per la stessa azienda. Se prima esisteva una completa “dicotomia” tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, oggi si stipulano tutta una serie di contratti “parasubordinati” (collaborazione a progetto, etc.) che pongono delle serie difficoltà nella scelta delle modalità di tassazione. Anche per le imprese le cose sono cambiate molto, le modalità produttive e competitive sono ben diverse da quelle che esistevano prima dell’avvento della globalizzazione.
Detto questo, negli ultimi 30 anni si è cercato di adeguare il sistema fiscale al cambiamento dei tempi, attraverso continui “rattoppi” (per usare le parole di Tremonti) che hanno reso complicatissimo e farraginoso il sistema.
Non c’è dubbio che la forte complessità delle norme sia sicuramente un incentivo all’evasione, inoltre non è un mistero che il modello fiscale vigente finisce per far ricadere il maggior onere fiscale sui redditi da lavoro dipendente e sulle pensioni, offrendo al contrario un trattamento privilegiato ai detentori di rendite finanziarie e ai soggetti che posseggono grandi patrimoni.

Proprio partendo dai limiti che ho appena elencato la proposta avanzata da Tremonti è quella di spostare la tassazione dalle persone alle cose. In altri termini, ridurre l’imposizione che colpisce il reddito del contribuente sotto forma di Irpef (se si tratta di persona fisica) o di Ires (se si parla di soggetti giuridici come le società) e al contempo incrementare la tassazione indiretta, la quale prende a riferimento il consumo di beni e servizi e viene attuata principalmente attraverso l’applicazione dell’Iva (imposta sul valore aggiunto).
A questo proposito, tenuto conto che la Costituzione impone, per comprensibili ragioni di equità sociale, un sistema fiscale basato su una tassazione progressiva (chi ha un maggior reddito, o meglio una più elevata capacità contributiva è tenuto a pagare più imposte in modo più che proporzionale, rispetto a chi ha minori possibilità), in un ipotetico sistema che privilegi la tassazione del consumo dovrebbe essere accentuata molto la progressività dell’Iva, nel senso che i beni e servizi di lusso dovrebbero scontare aliquote d’imposta molto più alte, rispetto a beni e servizi di prima necessità.

L’idea alla base della tassazione del consumo è quella che i soggetti che guadagnano di più probabilmente acquistano una maggiore quantità di beni e servizi, soprattutto di lusso e quindi con un’Iva fortemente progressiva essi pagherebbero più imposte, senza magari rendersene conto, visto che la tassazione del consumo, a differenze di quella sul reddito, non si basa su una auto-dichiarazione del contribuente, ma sulla semplice effettuazione di un’operazione di acquisto.
L’altro aspetto ribadito da Tremonti è quello legato al “federalismo fiscale” che comporta lo spostamento della tassazione dallo Stato agli enti locali con l’obiettivo di responsabilizzare quest’ultimi al mantenimento di un equilibrio di bilancio. In effetti, l’attuale sistema è piuttosto anomalo su questo aspetto. Gli enti locali (regioni, provincie, comuni, etc.) hanno una certa autonomia nelle decisioni di spesa, ma al contempo non devono procurarsi le risorse per finanziarle, in quanto la maggior parte di esse vengono trasferite dallo Stato agli enti locali con la legge finanziaria annuale.
Quindi ad un’elevata libertà nelle scelte di spesa riconosciuta agli enti locali non corrisponde una stringente responsabilità di bilancio.

In conclusione, naturalmente ognuno di noi può avere una propria opinione su questo spinoso argomento, in ogni caso la necessita di riformare il sistema fiscale italiano, verso un modello meno complesso, più efficiente e soprattutto capace di tassare in modo equo tutti i redditi, a prescindere dalla provenienza, è sicuramente una delle priorità che dovrebbe essere perseguita nel nostro Paese, anche prima di altre riforme attualmente perseguite.
Un paese moderno e democratico si vede in primo luogo dalla sua capacità di ripartire l’onere fiscale in modo equo tra tutti i cittadini.