(A firma di Sandro Coletti) –
«Quando siamo usciti di casa non ci siamo resi conto immediatamente della situazione, ma è bastato allontanarci un pò, vedere la chiesa… a terra… siamo andati a vedere…»;
«Sono uscito fuori. Ho visto Tussillo [frazione di Villa Sant’ Angelo ndr] coperto di polvere, ho preso qualche attrezzo, una torcia, delle vanghe… sono andato…»;
«Sembrava che le Grotte [di Stiffe ndr] si fossero richiuse su se stesse, il rumore era infernale, ho temuto subito il peggio… un respiro profondo… devo andare a vedere!».
Queste le primissime impressioni di quattro ragazzi che abitano in punti diversi di Villa Sant’Angelo, piccola comunità dell’aquilano, tra le più colpite dal recente sisma.
Nell’ordine i due fratelli Luca e Andrea, Adriano, Eros.
Quattro persone molto legate al loro paese, sempre pronte a mantenerlo vivo con le più svariate iniziative, dall’organizzare piccoli eventi musicali al partecipare all’organizzazione delle tradizionali feste locali.
Già a prima vista le loro abitazione sono sembrate illese, il loro pensiero è andato quindi ai familiari e agli amici che abitavano nella parte centrale del paese o nella frazione di Tussillo, le zone con le costruzioni più antiche.
L’elettricità sembrava essere fuggita, non c’era copertura telefonica, l’unico modo per accertarsi della situazione era andare di persona. I quattro amici sono stati tra i primi a farlo, spinti emozioni istintive, contrastanti, che poco o nulla hanno chiesto alla razionalità. Non potevano ancora sapere che di lì a poco il loro coraggio, e un pò anche la loro “follia”, sarebbero stati sottoposti ad una prova fino allora inimmaginabile. Lo scenario era bellico, riassumibile in una sola parola “disperazione”.
Gli edifici come bombardati, persone urlanti, ferite. Tristi scene di cui la memoria farebbe volentieri a meno.
C’erano persone che dalla strada chiamavano i genitori, i parenti anziani rimasti intrappolati nelle case, dalle macerie o dalla paura. Le porte erano bloccate, tanto le mura avevano cambiato forma e posizione, così le abbiamo forzate. Odore di gas, fili elettrici schizzati fuori dall’intonaco penzolavano mossi dalle scosse che continuavano regolarmente. Gli anziani erano pietrificati, qualcuno lo abbiamo dovuto sollevare quasi di peso per portarlo fuori.
«La porta della casa di mia nonna, su a Tussillo era inservibile, sono dovuto passare dalla legnaia nel semi interrato, sforzandomi di non pensare a cosa sarebbe potuto accadere nel caso di un’altra scossa. Poi sono riuscito ad aprire il portone dall’interno e siamo usciti. L’ho fatta portare al sicuro. Io sono rimasto, c’era altra gente la vicino che ancora tentava di farsi strada tra le loro stesse case, sono andato ad aiutarli. Abbiamo tirato via tante di quelle macerie…
«Qui tutti salvi per fortuna, vado a vedere giù in paese!»
Io e mio padre siamo corsi in piazza, da suo fratello. La casa era ridotta malissimo, così pure quelle attigue. C’era puzza di metano ovunque, d’istinto ci siamo messi a scavare con ogni mezzo, con le mani anche. Altre persone ci hanno raggiunto. Piano piano siamo riusciti ad aprire un varco e far uscire i malcapitati. Poi ho visto Luca, Andrea, poi Adriano. Ci siamo inoltrati nei vicoli, stentando tra le pietre…»
Col passare del tempo altre persone si sono unite ai quattro ragazzi (Pino, Sandro, Sabatino, Giulio e pian piano tutti i ragazzi e gli uomini in grado di dare man forte che non vengono citati per ragioni di spazio, ma il cui contributo è stato altrettanto fondamentale e ammirevole dal punto di vista del coraggio, ma soprattutto da quello umano) nel tentativo di aiutare coloro che abitavano nella parte più interna del paese, in quei vicoli stretti che tanto sollievo donavano ai turisti in cerca di riparo dalla calura e dal caos cittadini, dove la natura ha giocato a domino con gli edifici.
C’erano persone che spuntavano miracolosamente dalle mura ferite, tramezzi e armadi avevano arginato i detriti, permettendo così la respirazione. Tirarle fuori è stato certo più che rischioso, i tetti erano per lo più pericolanti, ma andava fatto, in attesa dei soccorsi, di persone meglio equipaggiate.
Purtroppo il loro primo intervento non è bastato in alcuni casi, e chiedere loro di parlarne, di ricordare, sarebbe davvero troppo; oltretutto hanno sempre evitato di esporsi nei giorni seguenti, quando l’attenzione mediatica era puntata sull’Abruzzo.
Non cercavano né riconoscimenti pubblici, né eroici epiteti:
«Quello che abbiamo fatto è avvenuto, inizialmente, quasi senza che ce ne rendessimo conto, e poi anche altre persone erano là a fare lo stesso, persone che come noi sono andati, sulle prime e comprensibilmente, a vedere cosa fosse accaduto ai loro cari, e che poi hanno tentato di aiutare tutti gli altri in difficoltà… certamente anche negli altri paesi o all’Aquila sarà successo qualcosa di simile.»
È stato il loro forte legame con il paese e con la loro gente, un atavico senso di comunità, quindi, a spingerli all’impresa. Oggi hanno scelto di raccontarla perché diventi un segno di speranza, quella stessa speranza che qualche mese fa li ha spinti a farsi largo tra i crolli, e che oggi deve essere condivisa, perché guardare avanti, nonostante tutto, nonostante la terra tremi ancora, si può e si deve, perché anche nell’emergenza, nella paura, continuiamo ad essere uomini, persone che avevano sogni, progetti e soprattutto un fortissimo senso di dignità, e che meritano, come tutti gli uomini meriterebbero, di continuare ad averne.
Uno spirito comunitario che si spera animi coloro i quali, adesso, hanno il compito di far sì che in queste zone si possa tornare appunto a guardare al domani, in un Paese dove troppo spesso le promesse divengono meri spot.