(A firma di (Redazione)) –
Con una serie di immagini e un’animazione grafica proiettate su alcuni edifici simbolo di Milano, gli attivisti di Greenpeace sono entrati in azione la scorsa notte per denunciare le attività di pesca distruttiva di Mareblu, definito un pericoloso “killer del mare”.
Nelle sue scatolette finisce infatti tonno pescato con tecniche che uccidono ogni anno migliaia di baby-tonni e altri animali marini, tra cui squali e tartarughe, spesso di specie in pericolo. La scelta di Milano non è stata casuale: il capoluogo lombardo è infatti sede di molte tra le aziende leader del mercato italiano del tonno in scatola, compresa Mareblu.
Dal Castello Sforzesco a Piazzale Loreto, dal Pirellone ai palazzi del nuovo complesso di Porta Garibaldi, fino ad arrivare a Piazza San Babila, il video da Greenpeace mostra il logo di Mareblu che emerge dal mare trascinando con sé una rete piena di tonni, squali e tartarughe morenti.
Nell’animazione rivoli di sangue scendono dal logo di Mareblu fino a tingere il mare di rosso. “Due anni fa Mareblu si era impegnato per una pesca 10% sostenibile, ma ad oggi solo nello 0,2% dei suoi prodotti è presente tonno pescato con metodi selettivi come la pesca a canna- dichiara Giorgia Monti, responsabile della campagna Mare di Greenpeace Italia- Questa condotta irresponsabile sta svuotando il mare: è ora che i consumatori sappiano che dietro il logo di Mareblu si nascondono solo false promesse e pratiche di pesca distruttive”.
A fine ottobre Greenpeace Italia ha pubblicato la quarta edizione della sua classifica “Rompiscatole”, con cui periodicamente valuta la sostenibilità delle conserve di tonno vendute sul mercato italiano. Mareblu è sceso in classifica in fascia rossa: bocciato proprio per le sue politiche di approvvigionamento. Nei suoi prodotti viene infatti usato per lo più tonno pinna gialla proveniente dall’Oceano Indiano, dove lo stock è ormai sovrasfruttato e pescato con metodi distruttivi, come le reti a circuizione usate con sistemi di aggregazione per pesci (Fad). Così in un comunicato Greenpeace.
Mareblu è inoltre di proprietà del colosso mondiale Thai Union, già negli scorsi mesi oggetto di inchieste giornalistiche su casi di violazioni dei diritti dei lavoratori, e in queste ore al centro di una nuova indagine di Associated Press che collega il gigante tailandese a episodi di lavoro forzato e minorile lungo la sua filiera di produzione dei gamberi.
Testimonianze drammatiche quelle raccolte da Ap, come quella di una donna che dopo aver abortito è stata costretta a continuare a lavorare nonostante l’emorragia in corso. L’inchiesta di Associated Press è riuscita a dimostrare che quanto prodotto violando i diritti dei lavoratori è poi arrivato sul mercato statunitense. Alcune delle aziende menzionate dal reportage vendevano però anche sui mercati di Paesi asiatici ed europei, tra cui l’Italia. “Quanti altri scandali dovranno essere denunciati prima che Mareblu e la sua casa madre Thai Union decidano davvero di cambiare? Il colosso tailandese è direttamente responsabile della distruzione dei nostri mari e della sofferenza di migliaia di lavoratori. Ha il potere e il dovere di trasformare l’industria ittica. È ora di eliminare i metodi di pesca più dannosi e assicurare il rispetto dei diritti dei lavoratori. Solo così potremo garantire un futuro ai nostri mari e alle migliaia di persone che da essi dipendono”, conclude Monti.
Greenpeace lo scorso ottobre ha lanciato la campagna globale “Not just tuna” contro Thai Union e i diversi marchi di sua proprietà, tra cui Mareblu, per chiedere di usare solo tonno sostenibile e tutelare i diritti dei lavoratori lungo tutta la catena di produzione. In Italia la petizione di Greenpeace rivolta a Mareblu ha superato in poche settimane le 36 mila firme. Un segnale forte che mostra come i consumatori italiani siano sempre più attenti e orientati verso la scelta di prodotti che non abbiano impatti negativi sull’ambiente e sulle persone.
Consulta la classifica “Rompiscatole” e la petizione di Greenpeace su http://www.tonnointrappola.it/.