(A firma di Roberto Lettere, Sociologo) –
Il terremoto dell’Aquila non è stato lo stesso evento per tutti.
Ha avuto le gradazioni, durante e dopo la scossa del 6 aprile, dello spavento e del terrore, del dramma e della tragedia, del miracolo e del lutto, della catarsi individuale o di gruppo e della spoliazione comunitaria in tenda o in albergo, della voglia di ripartire e di quella di partire.
Dopo la paura, lo sconforto, il pianto: la rabbia. La natura, hanno compreso i tanti non sprovveduti e carichi di laica volontà di comprensione, ha fatto il suo corso normale, se non addirittura amichevole, “facendosi annunciare” dalla metà di dicembre 2008. Ma gli uomini e le loro istituzioni non hanno voluto e saputo ascoltare.
Le responsabilità umane di un evento naturale hanno procurato una tragedia, con troppi morti, che solo per caso non è stata ancora più devastante: di giorno i morti sarebbero stati migliaia).
Cosa c’è di peggio di una catastrofe come il terremoto? Cosa c’è di peggio di una tragedia che vede coinvolti oltre 300 morti, circa 1.500 feriti e 63.000 sfollati in un territorio che non supera i 100 mila abitanti?
Dopo aver pianto i morti, dopo la straordinaria solidarietà nazionale, dopo la consapevolezza della distruzione di proprietà, oggetti cari conseguiti con sacrificio e passione lungo la vita di individui, coppie, famiglie, sorge una domanda che rappresenta una biforcazione esistenziale: si può amare coloro che non amano se stessi? Per quanto tempo si può esprimere affetto a chi non ha rispetto del valore della vita e della morte? Questa è l’essenza dei problemi che la comunità aquilana (ed altre similmente) vive oggi con l’amplificazione del collasso sismico.
Il nodo da sciogliere subito, onde evitare fraintendimenti più o meno consapevoli, depistaggi voluti per aggirare colpevoli responsabilità, falsità scientifiche per consentire al sistema delle lobby e dei poteri forti, più o meno occulti, di perdurare nel dominio del territorio, fideismi ancestrali contro la natura malevola ed a favore del potente di turno, che come un dio riparatore sana le ferite, è proprio questo: la natura è incolpevole, l’uomo deve aver cognizione delle proprie responsabilità e colpe.
Il territorio dell’Aquila risulta, ora pubblicamente, tra i più sismici del mondo, in particolare per i livelli di accelerazione iniziale e di amplificazione. Da dicembre 2008 la popolazione avvertiva le scosse telluriche. Anche creando il panico (ma con una corretta comunicazione si poteva “guidare” la paura della popolazione) occorreva predisporre vie di fuga, rifugi attrezzati e quant’altro necessario per coloro che volontariamente aspiravano a proteggere la propria vita e quella dei familiari.
Bisogna capire bene, per il futuro delle nostre famiglie e dei nostri figli, a che “gioco si vuole giocare”. Si, perché finora si è giocato con le vite degli abitanti di Onna, del centro storico aquilano, di Pettino, e di tanti paesi dell’altopiano. A Pettino, zona dormitorio nonché “moderna” della città, i palazzi (taluni antisismici) ospitavano 25 mila persone ed erano stati costruiti a partire dagli anni ’70 su una faglia nota a tutti. I piani regolatori e le scelte politico/amministrative hanno sancito indirizzi costruttivi ed abitativi omicidi: troppi palazzi sono implosi con il piano terra rimasto schiacciato da quelli superiori.
Il sisma è preesistente ai più antichi insediamenti umani: l’ineluttabilità della natura ha colpito la follia degli uomini. Questi ultimi non si sono presentati in campo quando era l’ora di affrontare preparati lo scontro diretto col leviatano tettonico (Behemoth).
Fin qui si tratta di dati tecnici, distinguendo una costruzione adeguata da una inadeguata e non a norma. Ma il punto vero è proprio questo: se per costruire in sicurezza una abitazione, almeno per scosse di magnitudo pari a quella subita lunedì 6 aprile, occorre spendere più della norma, allora la sicurezza e la vita sono legate al censo. Tale equazione non è pertinente in uno stato di diritto che pretende di esportare la democrazia nei “Paesi in via di sviluppo”. Tutte le abitazioni devono, per legge, rispettare criteri di sicurezza imprescindibili al fine di tutelare la vita del cittadino.
Invece abbiamo visto, per l’ennesima volta, che le regole non sono state rispettate da tanti, troppi “attori” istituzionali e privati.
Pensiamo alla Casa dello studente, all’Ospedale regionale, alla Prefettura, al Convitto, a tutte le sedi istituzionali del centro storico e alle abitazione private correlate. In un territorio ad altissimo rischio sismico lo Stato avrebbe dovuto obbligare ad edificare e adeguare attraverso norme di sicurezza in maniera universalistica.
L’impoverimento di un territorio già debole è la preoccupazione per il futuro prossimo. Le sofferenze fisiche e psicologiche dei cittadini, nonostante gli sforzi governativi, si protrarranno a lungo nel tempo. Il post terremoto non programmato appare terribile, nella sua unicità. Basti pensare alle fratture relazionali in seno alle famiglie e tra la comunità aquilana che, ormai, si trovano a vivere uno sradicamento epocale, una sorta di diaspora; pur contingente e garantita al confronto con gli elementi cronici e generazionali di altri contesti internazionali più problematici (pensiamo alla Nakba per il popolo palestinese).
Il problema più grosso da risolvere, paradossalmente, per vivere in un futuro caratterizzato da sicurezza e benessere, non è rappresentato dalla disponibilità dei soldi per la ricostruzione e dai rimborsi totali dei danni. Si tratta, piuttosto, di acclarare le responsabilità di uomini ed istituzioni sia dal versante giudiziario sia da quello etico/comunitario. Solo con una catarsi etico-culturale delle componenti cittadine (ricchi e poveri, cittadini e paesani, autoctoni, immigrati e studenti universitari non residenti, etc.) si potrà esorcizzare il terrore che attanaglia bambini, anziani, donne e uomini e, forse, si potrà convivere con il “mostro” rimosso che da tempo immemore cova, e continuerà a persistere tra le viscere del sottosuolo, si eviterà di perseverare nell’incuria e nella ricerca del profitto senza scrupoli e controlli.
Usiamo il dubitativo poiché sappiamo quanto è difficile, in questi momenti, praticare la via di mezzo ragionata tra: la voglia di fuggire da un luogo che ha dato la morte (una terra che potrebbe ingoiarti); il fatalismo di chi ritiene che, scampato il pericolo, il problema si ripresenterà tra qualche secolo; lo scientismo dei tecnocrati competenti semper post che spergiurano sulla sicurezza degli edifici attualmente presenti sul territorio, ma non garantiscono ufficialmente niente di sicuro e stabile nell’eventualità, non certo remota, di una scossa distruttiva superiore, ad esempio, al 7° grado Scala Richter.