(A firma di Carlo Di Stanislao) –
Non credo che si spalancheranno a lui le porte del Paradiso, ma neanche, immagino, quelle dell’Inferno, anche se Craxi lo chiamava Belzebù e di lui il suo maestro e mèntore Alcide De Gasperi, diceva che era un giovane così capace da essere capace di ogni cosa. A capo della corrente più minoritaria del partito dello scudo crociato, è assurto a feticcio di una precisa maniera di fare politica: l’elogio della mediazione. Quell’arte della dialettica mista ad arguzia, tempismo e pelo sullo stomaco che ha permesso al Paese, nel bene e nel male, di restare in piedi.
In settanta anni di vita politica, con una carriera di mezzo secolo come protagonista, Andreotti ha rappresentato il peggio ed il meglio non solo della DC, ma dell’Italia tutta, uno statista più apprezzato fuori che dentro al partito, meno amato di Moro o Fanfani, ma più capace di tessere reti e mediazioni, caro al Vaticano e agli americani e braccio esecutivo del compromesso storico che, di fatto, portò i comunisti al governo prima ed al declino poi. Per sette volte primo ministro e per un numero infinito ministro e di ministeri importanti, Andreotti si porta dietro la più parte dei segreti della nostra nazione, indigesto quasi a tutti ma quasi da tutti rispettato, volpe con smisurata furbizia che riusciva, con folgoranti battute e bonomia romanesca, che riuscivano costantemente ad incantare gli elettori che lo hanno amato e votato per 45 anni.
Voleva fare il medico Andreotti e solo per motivi economici studiò da avvocato, iniziando a fare politica a 20 anni, nelle Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana, da cui nacquero la più parte delle leve e dello Stato del dopoguerra: Aldo Moro, Francesco Cossiga, Giuseppe Dossetti e Giuseppe Lazzati.
Da allora è sempre stato eletto in Parlamento, fino al 1991, quando l’allora presidente della Repubblica Cossiga lo nomina senatore a vita.
Ha conosciuto ed è stato apprezzato da cinque Papi: Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ed ha sempre incarnato il Vaticano dentro alla DC, tanto che il suo biografo Massimo franco, lo ha definito “cardinale esterno” e ieri sera, il cardinal Bertone, Segretario di Stato, lo ha beatificato in diretta tv ricordandone i meriti. Legato strettamente a pochi nel suo partito (Evangelisti e Cirino Pomicino), amico di amici di mafiosi (i fratelli Lima), coinvolto nel delitto Pecorelli, la sua è una parabola di potere piena di ombre, molto ben descritta ne “Il Divo” da Paolo Sorrentino. In fondo, fra le molte sue contraddizioni, resta un granitico e roccioso filo rosso: l’idea che solo la Democrazia Cristiana poteva incarnare, con i suoi ideali, la crescita di questa nostra nazione. Il periodo più difficile, complesso e oscuro, è quello degli anni settanta, quello di Sindona e Gelli, del delitto Moro e del terrorismo, gli anni della strategia della tensione e della linea della fermezza, smentita da tentativi di trattative occulte e dai comitati per la gestione dell’emergenza, fortemente infiltrati da aderenti alla loggia massonica P2 proprio nel periodo era presidente del consiglio dei ministri e Francesco Cossiga, ministro degli interni. Come scrive nel suo ricordo su La Stampa, Marcello Sorgi, nella lettera terribile con cui i familiari di Moro comunicavano alla classe politica, e principalmente ai Dc, il rifiuto dei funerali di Stato e il divieto di prendere parte alle esequie private del loro congiunto, ucciso dalle Br, si concludeva con una frase, rimasta scolpita nella memoria: “Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”. Un’affermazione così categorica, mirata chiaramente a sottrarre Moro alla contingenza e alle ipocrisie dei suoi stessi amici di partito – i quali, con l’eccezione di Fanfani, non si erano dati pena di cercare di sottrarlo alla condanna a morte dei terroristi -, che potrebbe sorprendentemente adattarsi benissimo anche ad Andreotti, l’uomo politico che da sempre è stato considerato agli antipodi dello statista finito vittima delle Br.
Zaccagnini, l’ascetico segretario della Dc in quei giorni e Andreotti, divennero, insieme al ministro dell’Interno Cossiga, i bersagli principali delle strazianti lettere di Moro dal carcere brigatista, nelle quali, il prigioniero mostra di conoscere come nessun altro le sfumature di carattere dei suoi amici di partito, e mettendoli uno contro l’altro di fronte alle loro responsabilità, tentando il sottile gioco psicologico di aprire una breccia nel muro rigido della fermezza: scelta inevitabile, ma impensabile, per un partito molle come la Dc.
Di Andreotti, come risulta chiaro dalle lettere che lo riguardano, Moro in particolare conosceva due aspetti che da soli ne definivano la personalità, individuale e politica: il carattere romano indifferente, profondamente conoscitore dei valori e dei limiti di osservanza degli stessi, dei cattolici impegnati in politica. Va ricordato comunque, come sempre fa Paolo Mieli (e dimenticano quasi tutti gli altri), che se l’ideologo del compromesso con i comunisti fu Moro, il pratico realizzatore dello stesso fu Andreotti che, dopo i fatti del Cile, convinse Berlinguer e i suoi giovani tenenti (Occhetto, D’Alema, Fassino, Veltroni), che esso poteva essere la concretizzazione strategica della “via italiana al socialismo” e quindi “la corretta traduzione, nelle condizioni nazionali, di una linea di classe”, facendo sì, in solo tre anni di coinvolgimento, che quell’espressione di un classismo nobile ma miope, condannasse negli anni ottanta il Pci al declino. Nel 1991 silurò Forlani ma non riuscì a salire al Quirinale a causa del delitto Salvo Lima e della strage di Capaci, ma soprattutto perché era temuto principalmente dai suoi stessi colleghi di partito. Il suo è stato definito il “processo del secolo”, un processo da cui è uscito per metà assolto e per metà prescritto, un processo che tendeva a rappresentarlo, non solo come uno dei numerosi politici in rapporti con mafiosi (accusa, questa, che nel tempo è piovuta sulla testa di tanti altri, da Berlusconi via dell’Utri, a Cuffaro, a Lombardo), ma come una specie di capo, o di co-capo, accanto al boss corleonese Totò Riina, con una ipotesi di vita parallela e di una vasta pubblicistica che ha portato il Divo Giulio (titolo perfetto dell’eccessivo e paradossale film di Paolo Sorrentino) a cadere continuamente nelle ceneri e a risollevarsi, a rispondere di omicidi (Pecorelli, assolto), di amicizie opache (Gelli, P2, il Caltagirone che si rivolgeva al suo braccio destro Evangelisti con il famoso: “A’ Fra’ che te serve?”), di oscuri coinvolgimenti con servizi segreti deviati (la strage di Piazza Fontana, lo scandalo della Lockheed, l’aereo di Ustica e un pò tutti i misteri italiani degli Anni Sessanta-Settanta-Ottanta).
Ora l’Andreotti-Belzebù, con la sua gobba, il suo sguardo affilato, lo “squalo di Sbardella”, se ne è andato portandosi dietro i suoi segreti che certo sono tanti e spesso neri ma che, come dicono i più avvertiti, sempre giocati nell’interesse dell’Italia e dello Stato nel loro insieme. Andreotti fu soprattutto uomo di governo e seppe interpretare come nessuno gli incarichi istituzionali e apicali che ricoprì lungo una carriera politica segnata dalla capacità di adattarsi, con singolare pragmatismo, ai mutamenti culturali del nostro Paese. E pur non avendo mai ricoperto incarichi di vertice fu colui che orientò e condizionò le scelte operate dalla DC per oltre quarant’anni, sempre attore protagonista delle vicende che ne segnarono le scelte strategiche e che lo portarono ad avere con il Pci ed il Psi un rapporto complesso e articolato. Certamente, di là da facili giudizi, il più importante politico italiano del dopoguerra. Pensando adesso a lui, all’indomani della sua morte, mi viene in mente la trasformazione operata da Coppola e Milius del Kurtz di Conrad, metafora filosofica di una volontà di potenza per continuare a sopravvivere ai mutati contesti storici, che deve lasciare indietro un fine vecchio, giudicandolo sbagliato ed eliminandolo, ma solo per potervi sostituire un fine nuovo ritenuto “più giusto”, mentre in realtà si tratta di un gioco delle apparenze che serve solo a perpetuare la volontà di potenza, unico vero tratto distintivo della cultura occidentale moderna a prescindere dalle diverse “maschere ideologiche” di cui si veste.