(A firma di Antonio Cappelli, Direttore Confindustria L’Aquila) –

Progettare oggi una politica industriale, posto che questo sia l’obiettivo dell’attuale Governo, pervade tre ambiti che svolgono il ruolo di causa ed effetto della cosiddetta crisi:

  • produzione reale ad alta occupazione
  • ambiente/energia
  • sistema finanziario

Assunto che la natura della crisi affonda le sue radici nelle tre questioni di cui sopra, ci troviamo di fronte ad una disoccupazione di massa di lunga durata che non ci consentirà di recuperare i posti di lavoro persi, i quali credibilmente non torneranno mai più ai livelli del 2007. Chi spaccia come ripresa economica il ritorno alle produzioni di massa di auto, elettrodomestici, telefoni, gadget magari con l’aggiunta di un tot di impianti eolici e fotovoltaici destinati a procurare una maggiore energia onde aumentare da capo la produzione di auto eccetera eccetera… mente sapendo di mentire.

Il fatto richiederebbe un’espansione inimmaginabile dei nostri mercati nella Ue e l’invito a “fare come la Germania” è solo manipolativo e illusorio: la Germania esporta il 60% della propria produzione in Europa e il suo successo poggia sul presupposto che gli altri Paesi non riescano mai a produrre merci simili alle sue e, soprattutto, che si indebitino per acquistargliele. In più, un ritorno alla produzione tradizionale, anche se innovativa come nel campo energetico, ripropone il dilemma di stare a supportare produzioni energivore, destinate per loro natura a reinnescare meccanismi di consumo delle risorse, con conseguente ripresa del circolo vizioso.

Produzione reale ad alta occupazione: il caso della mobilità sostenibile.

L’Italia ha il più alto tasso di automobili di tutta Europa ed un sistema di trasporti che è meno efficiente di 50 anni fa. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, per ammirare i casi limite, qualora non bastasse il quotidiano di ciascuno di noi, basta fare un giro sulle tangenziali di Milano, Bologna, Roma, Napoli per verificare l’irrazionalità collettiva: un conto semplice dice che milioni di macchine di un peso medio superiore alla tonnellata portano in giro una persona in media di 60 kg su percorsi di 15/20 km al giorno.

Un progetto di mobilità periurbana e interurbana sostenibile, competitiva con il “porta a porta” dell’auto, porterebbe alla produzione tipicamente ad alta intensità di lavoro, quale è quella della produzione di treni, tram, vetture metro, autobus. La costruzione di un autobus, per esempio, equivale a fabbricare 30/35 auto di fascia media quanto a impiego di forza lavoro. Reti capillari di metropolitane, linee subregionali con treni che servono le città sugli stessi tragitti del metro (la RER di Parigi è un esempio evidente), linee di autobus e di tramvie sosterrebbero la produzione di mezzi di trasporto pubblico, segmento sul quale l’Italia ha una storia ma che invece ha messo da parte.

Una rapido colpo d’occhio ci dice che:

la Fiat Ferroviaria di Savigliano, produttrice di treni ad alta tecnologia, è stata ceduta all’Alstom, suo primo concorrente, la quale certo accoglierebbe commissioni di comuni e regioni italiane ma risponderebbe agli interessi della sua capogruppo francese;

l’Ansaldo Breda (unica produttrice rimasta in Italia) chiaramente patisce la mancanza di domanda nazionale;

la Fiat si è messa in un angolo sull’Irisbus, ultimo costruttore italiano di peso.

Conclusione: un aumento della domanda di mezzi di trasporto, capaci di garantire qualità della vita e conseguente alto indice di produttività diretto e indiretto, genererebbe un’occupazione nel solo settore della costruzione dei mezzi e dei relativi complementi, dai binari agli impianti tecnologici, di decine di migliaia di persone, ivi comprese le ricadute su ricerca e innovazione.

Non dimentichiamo che l’art. 9 del Disegno di Legge di Stabilità, prevedendo l’istituzione del Fondo nazionale per il concorso finanziario dello Stato agli oneri del trasporto pubblico locale, anche ferroviario, nelle regioni a statuto ordinario, destina i finanziamenti all’incentivazione di regioni ed enti locali per razionalizzare e rendere efficiente la programmazione e la gestione dei servizi di trasporto pubblico.

Ambiente/energia.

Il risparmio energetico è la prima fonte di produzione. Le stime dicono che il 40% dell’energia utilizzata dagli edifici esistenti di tutti i tipi va integralmente sprecato: risparmiarla significa non acquistare un equivalente di migliaia di tonnellate di petrolio l’anno. La quantità di lavoro che andrebbe dalla manifattura all’edilizia (un comparto che si definisce in crisi da anni) è facilmente intuibile: configurerebbe un secondo boom dell’edilizia. Dalle pareti, ai sottotetti, ai serramenti, al recupero e reimmissione delle acque reflue (i cassoni dei water funzionano ad acqua potabile! un crimine) alla produzione autonoma di energia per uso domestico, alla regolamentazione del calore nelle unità abitative… fino alla creazione di minicentrali collocate in ogni isolato rappresentano un business a chiara portata di mano.

Chi finanzierebbe tutto questo, visto che trattasi di progetti a rendimento di lungo termine? Certo non una classe politica il cui orizzonte temporale non va oltre le prossime elezioni.

Le fonti sono molteplici: dagli enti territoriali ai fondi pensione, visto che trattasi di progetti ricompresi a pieno titolo tra quelli ad investimento socialmente responsabile. E l’acquisto dei famosi cacciabombardieri, caduto solo in parte sotto i colpi dei tagli generalizzati?

Se pensiamo, questioni etiche a parte, al fatto che alla produzione di quei costosissimi aerei l’Italia partecipa solo per la fabbricazione di parti minori e al montaggio, quanti posti in più potremmo creare con un corrispettivo pari alla metà di quella spesa investito in produzione nazionale di autobus, tram, vetture di metropolitana?

Con buona pace della crisi dell’auto, della qualità della vita (che significa denaro), dell’imperativo di consumare a qualsiasi costo qualunque bene (per definizione scarso e irriproducibile).

Sistema finanziario.

Posto che la mancata riforma del sistema finanziario su scala europea, ivi compresa la Bce, impedisce che progetti del tipo indicato siano quanto meno posti in dibattito, ad oggi una fonte di finanziamento a lungo termine dovrebbe venire dal sistema bancario. Il problema torna alla questione della riforma che dovrebbe ricondurre le banche alle loro funzioni essenziali, che sono:

# fare tanta piccola raccolta di denaro presso molti che al momento non ne hanno bisogno per prestarla in misura consistente a poche imprese e famiglie che lo richiedono;

# creare una ragionevole quantità di denaro da dare in prestito: la maggior parte del denaro circolante è creata in varie forme dalle banche private. Funzione decisamente più importante della prima, visto che, come risulta anche dai rapporti delle banche centrali, sono i prestiti che creano i depositi in maniera assai superiore del contrario.

In buona sostanza, si tratta di investire su scopi socialmente utili (laddove per social-utile significa produttivo di ricchezza e non di filosofia dell’etica), cioè in prestiti e investimenti produttivi. Ad oggi, invece, il denaro viene trasformato rapidamente a fini prettamente speculativi, con una utilità prossima allo zero: titoli commerciali da portare fuori bilancio onde sottrarsi alle prescrizioni degli accordi di Basilea 1 e 2 quanto a capitale da tenere in riserva.

Per ora, e dagli anni ’90 in poi, l’atteggiamento delle banche appartiene alla seconda tipologia sia in Europa che in America, e nessuna direttiva si vede in discussione per ricondurre le banche alle loro funzioni primarie.

Basterebbe poco.