(A firma di Gian Paolo Zeni, Presidente Ordine dei Dottori Commercialisti) –

La crisi finanziaria, esplosa nell’estate 2007 negli USA e poi diffusasi per contagio nel resto del mondo, ha natura sistemica ed è il punto di arrivo di un processo che da oltre
trent’anni ha modificato alla radice il modo di
essere e di funzionare della finanza, minando
così le basi stesse di quell’ordine sociale
liberale che rappresenta l’essenza del
modello di civiltà occidentale.
Tutto nasce dall’idea, secondo il pensiero
economico oggi dominante, che i mercati,
anche quelli finanziari, siano assetti
istituzionali in grado di autoregolarsi nel
duplice senso di darsi da sé le regole per il
proprio funzionamento ed inoltre di farle
rispettare.
Quanto alle cause prossime della crisi,
innanzitutto la cartolarizzazione, con cui ai
debiti dei clienti è stata conferita dalle banche
la qualità di titoli di credito da rivendere sul
mercato, ha permesso di spalmare i rischi dei finanziamenti concessi dalle banche su una vasta platea di operatori.
Le autorità americane hanno lasciato alle
agenzie private di rating, controllori pagati dai
controllati, il compito di decidere il grado di
sicurezza dei nuovi strumenti finanziari.
Senza la collusione delle agenzie di rating
bastava pagare bene per ottenere un
punteggio elevato, anche se i prestiti
sottostanti includevano rischi elevati il
fenomeno sub-prime non si sarebbe potuto
manifestare con inusitata violenza.
Perché i regolatori pubblici non sono intervenuti per tempo modificando la legislazione vigente così da porre fine al conflitto di interessi che vedeva coinvolte la maggior parte delle agenzie di rating?
Oggi, in un’economia globalizzata è un’anomalia che non vi sia un’autorità sovranazionale che crei una serie di regole per il funzionamento dei mercati e le faccia rispettare.
Un’altra causa prossima del crack finanziario è l’eccesso di indebitamento. Il volume delle transazioni speculative posto in essere nell’ultimo quarto di secolo è stato realizzato quasi interamente con denaro preso a prestito (30 dollari di debito contro 1 dollaro di capitale reale).
Quanto alle cause remote della crisi, il conflitto endemico della società post-moderna, quello tra la figura del lavoratore e la figura del consumatore, verrebbe risolto con la figura dell’investitore-speculatore.
La finanziarizzazione dell’economia induce così il risparmiatore a trasformarsi in speculatore, accorto o meno che sia.
È agevole comprendere che quando i redditi provengono dal lavoro (manuale o intellettuale che sia) lo scarto tra i più e i meno pagati non potrà mai superare una certa soglia; non così quando essi provengono da attività speculative o monopolistiche, oppure quando certe remunerazioni sono legate, come avviene nel caso delle stock options per i dirigenti, agli andamenti borsistici spesso influenzati proprio da elevati indici di redditività aziendale, meramente virtuali, costruiti dal management per lucrare cospicue remunerazioni.
La crisi in atto non troverà definitiva soluzione fino a quando la politica e il corpo sociale non riprenderanno in mano il governo dell’attività finanziaria, indirizzandola al suo fine naturale che è quello di porsi al servizio degli investimenti, della produzione, degli scambi.
La crisi che letteralmente significa transizione lascia in eredità a tutti gli attori un monito importante.
Alle banche commerciali e di investimento e alle varie istituzioni finanziarie l’invito è che esse tornino a riappropiarsi del fine proprio di fare finanza e che giungano a comprendere due cose. Primo che l’etica della virtù è superiore all’etica utilitaristica se il fine che si intende perseguire è il progresso morale e materiale della società.
Il secondo è che si recuperi la centralità della persona umana. La società post-moderna non può tollerare che si continui a parlare di “risorse umane”, alla stessa stregua di come si parla di risorse finanziarie e di risorse naturali.
Alle autorità di governo la crisi dice due cose fondamentali. La critica sacrosanta allo “Stato interventista” in nessun modo può valere a disconoscere il ruolo centrale dello “Stato regolatore”. In secondo luogo, le autorità pubbliche collocate ai diversi livelli di governo devono consentire, anzi favorire, la nascita e il rafforzamento di un mercato finanziario pluralista, un mercato in cui possano operare in condizioni di oggettiva parità soggetti diversi, quali le banche del territorio, le banche di credito cooperativo, le banche etiche, i vari fondi etici. Si tratta di soggetti che non soltanto non propongono ai propri sportelli finanza creativa, ma, soprattutto, svolgono un ruolo complementare, e dunque equilibratore, rispetto agli sportelli della finanza speculativa.
Quale, infine, il monito che la crisi invia ai soggetti della società civile, portatori di cultura?
Sappiamo da tempo che un’economia di mercato, per funzionare, può fare a meno di tante cose, ma non della fiducia, perché quella di mercato è un’economia contrattuale e senza fiducia reciproca non c’è contratto che possa essere siglato.
È alla società civile che spetta il compito di riannodare le corde tra tutti coloro che operano nel mercato e che questa crisi ha spezzato.
Da dove partire? Dalla ricentratura sia del discorso economico sia del nuovo disegno istituzionale sulla categoria di bene comune, un tempo assai presente nel dibattito culturale.
Intanto, alcune iniziative concrete per affrontare una crisi che sta mettendo in ginocchio tante piccole e medie imprese e tante famiglie possono prevedere una riduzione dei tassi di interesse da parte della BCE, incentivi semi-automatici alle imprese, quali il credito di imposta sugli investimenti in innovazione e ricerca, un più facile accesso al credito bancario, la riduzione della fiscalità sui redditi da lavoro per rilanciare la domanda aggregata. Sarà, altresì, determinante avviare un New Deal verde, una transizione epocale verso le energie rinnovabili per riportare in crescita un’economia globale oberata dai debiti. In sostanza come auspica J. Rifkin una nuova era energetica e un nuovo modello industriale che, trasformando completamente l’industria automobilistica e convertendo milioni di edifici commerciali e residenziali in autentici impianti energetici, comportino un capitalismo allargato in cui milioni di proprietari di case e di aziende esistenti e nuove diventeranno produttori di energia dando il via ad un’era post-carbonifera sostenibile.