(A firma di Michele Ballerin, scrittore, membro dell’ISFE) –
L’avvento del governo Monti ha provocato diverse reazioni, ma una in particolare ha dato il tono al dibattito che ne è immediatamente scaturito, mettendo d’accordo un po’ tutti: un profondo, più che giustificabile senso di sollievo. Sollievo che, saremmo tentati di credere, deve aver contagiato anche molti elettori del centrodestra, i quali dovevano sentirsi ormai esausti dopo i contorcimenti a cui la condotta dell’ex Presidente del Consiglio ha obbligato, per mesi e per anni, le loro povere coscienze.
Il nuovo governo nasce dunque sotto il segno del “finalmente”, per passare subito dopo, com’è inevitabile, a quello del “bene: e adesso?”. Non potrà essere infatti un sentimento così generico, di sollievo o d’altro, a guidare il nostro giudizio su questo difficile passaggio politico istituzionale.
E benché sia onesto godere di quest’aria nuova e più respirabile dopo un’apnea tanto prolungata, sarebbe sbagliato dimenticare che il nostro principale problema non è Berlusconi, ma il sisma economico-finanziario con cui siamo alle prese, e che non accenna minimamente a placarsi.
Non possiamo limitarci a constatare che il nuovo governo si presenta meglio del vecchio; ciò che ora dobbiamo chiederci è se sia il governo che fa per noi, a partire da quella che è la sua caratteristica più saliente: essere un governo tecnico di coalizione e cioè, da un punto di vista politico, un governo di compromesso.
Una certa fiducia non sembra fuori luogo se consideriamo che Monti può fare molto per l’Europa e, attraverso l’Europa, per l’Italia. Le posizioni del primo ministro sulle questioni chiave della governance europea sono inequivoche: non ha mancato infatti di esprimere la propria adesione al progetto di dotare l’eurozona di un vero governo economico e di strumenti indispensabili come un’agenzia federale per un debito comune e un coordinamento stretto delle politiche fiscali degli stati membri. Se si tratta insomma di cedere quote anche decisive di sovranità l’Italia, com’è in fondo nella sua tradizione e anche nel suo DNA costituzionale, è pronta a farlo. Non è un caso – non lo è affatto – che il presidente sia anche un membro del Gruppo Spinelli, lo schieramento extrapartitico e sovranazionale che da circa un anno raggruppa in Europa gli esponenti di spicco della corrente federalista e che annovera, oltre a lui, politici e intellettuali come Jacques Delors, Guy Verhofstadt, il compianto Tommaso Padoa Schioppa, Ulrich Beck e Amartya Sen. Perciò si può affermare che l’Italia non ha mai avuto, dai tempi forse di De Gasperi, un governo più europeista di quello attuale. Siamo pronti al “grande salto”. Meno male.
Ma anche il nostro scetticismo trova subito di che nutrirsi, perché i limiti – diciamo così: strutturali – del governo sono abbastanza evidenti per chiunque riesca appena a prescindere dal benefico senso di sollievo a cui si accennava. Nessuno, in verità, dovrebbe illudersi sul fatto che il governo Monti possa interrompere o anche solo rallentare l’implacabile decrescita dell’economia nazionale. Quello che esso non può darci è quello che non può darci nessun governo tecnico – come si è detto, nessun governo di compromesso: sul piano della politica economica un governo di questo tipo è inadeguato al compito e lo è per definizione, perché oggi il compito è di spingersi con la massima energia in una direzione ben precisa, mandando in pezzi una quantità di “compromessi” ovunque sia necessario.
Proprio ora che nella coscienza delle élites europee si fa largo il provvidenziale sospetto che l’unica via percorribile sia quella di un New Deal europeo, è anche indispensabile rammentare che, a quanto ne sappiamo, per fare un New Deal ci vuole un Roosevelt, e non un Hoover qualsiasi.
Questo significa che solo una politica progressista – nettamente, profondamente, audacemente progressista – potrà forse, con un pò di fortuna, tirarci fuori dalla trappola in cui ci siamo cacciati, e la precondizione è che si accantoni senza timidezze l’obiettivo del pareggio di bilancio: una politica che definire intempestiva e inopportuna sarebbe troppo poco, e che nessun dato di nessun genere – storico, empirico o teorico – può minimamente avallare.
Abbiamo motivo di credere che il Presidente del Consiglio se ne renda conto. È abbastanza avveduto e abbastanza competente per capire che l’obiettivo è impossibile, e perseguirlo sarebbe rovinoso.
Ma non sappiamo se sarà abbastanza risoluto da agire di conseguenza.
Da questo punto di vista la sua formazione e il suo passato non depongono del tutto a suo favore.
Se cadrà nell’errore di pensare che qualche riforma di stampo liberista sarà sufficiente a riavviare il motore inceppato dell’economia e della finanza – id est: a creare occupazione in tempi utili – e che a una forte spinta riformista in Europa si possa accompagnare una politica di austerità a livello nazionale, le conseguenze saranno gravi e non si faranno attendere molto.
D’altra parte riusciamo a immaginare il parlamento italiano, con la sua attuale composizione umana e politica, che appoggia l’indispensabile intervento di redistribuzione della ricchezza nazionale (il solo che nel breve termine darebbe fiato a consumi e investimenti e permetterebbe anche un rientro del debito pubblico)? Un parlamento che voti una patrimoniale seria – non una “minipatrimoniale”?
Chi ci riesce ha certamente molta immaginazione.
Questo governo è sottoposto a un duplice ricatto: da parte di una maggioranza parlamentare che ha già dimostrato di non conoscere altri interessi al di fuori di quelli più meschini e partigiani, e da parte di mercati finanziari sempre più aggressivi e disorientati. Non sono le condizioni migliori per un’azione efficace e tempestiva.
Non sembra perciò il caso di abbandonarsi a un eccessivo entusiasmo, né di abbassare le proprie pretese politiche accontentandosi di un governo “purché sia” per una politica qualsiasi. È vero il contrario: soltanto se i cittadini italiani ed europei sapranno esigere il massimo da chi li governa in questo difficile e pericoloso momento avranno qualche speranza di superarlo.
L’alternativa… Ma all’alternativa è meglio non pensarci neppure.