(A firma di Gabriele Gaudieri) –

Il “Caposcuola” dell’economia classica è stato Adam Smith, sebbene questi debba essere considerato più un “filosofo dell’economia” che un vero e proprio economista, così come possiamo comprendere dall’analisi della sua biografia e delle sue opere.
Smith nasce in Scozia nel 1723, figlio di un controllore di dogane, studia dapprima a Glasgow e poi ad Oxford, per prepararsi ad entrare nella carriera ecclesiastica; dimostra, però, una maggiore versatilità per la filosofia: viene duramente rimproverato per aver letto un’opera di Hume, “Trattato sulla natura umana “ (1738).

Successivamente insegna filosofia all’università di Glasgow, dove approfondisce gli studi di etica, teologia naturale ed economia.
Nel 1759 scrive un testo di dottrina morale, dal titolo “ Teoria dei sentimenti morali”,nella quale Smith, cercando di conciliare l’interesse personale e l’esistenza di un sentimento del dovere negli esseri umani, sostiene che siamo tutti guidati, nelle nostre azioni, non solo dal nostro interesse personale, ma anche dal giudizio che gli altri hanno di noi; noi stessi proviamo una particolare “simpatia”, nonché capacità empatiche nei confronti del prossimo, la qual cosa ci spinge a desiderare un giudizio positivo dagli altri sulla nostra persona.

La concezione del Nostro non può essere considerata “tout court” meccanicistica e naturalistica; l’ordine sociale, infatti, si basa sulla “naturale tendenza” ad ammirare i ricchi ed i potenti . Egli scrive:

“Sulla disposizione che noi abbiamo a simpatizzare con i ricchi e con i potenti, si fondano la distinzione delle classi e l’ordine della società.

La nostra condiscendenza verso i superiori nasce, nella maggior parte dei casi, più dalla nostra ammirazione per i vantaggi della loro situazione sociale, che non da qualche segreto calcolo sui benefici che potremmo trarre dalla loro benevolenza”

(Théorie des sentiments moraux , Paris,1830,vol.1,pag.91)

La società è meno perfetta di come sarebbe desiderabile, nelle classi basse la strada della virtù coincide quasi sempre con la loro “ricchezza”, nelle classi alte, nelle anticamere dei potenti, prevalgono abilità ed adulazione, il successo sociale e la virtù sono molto spesso opposte l’una all’altra.
Smith ci fa comprendere il forte contrasto tra “giustizia sociale” ed “ordine economico”, il quale si realizza con “l’azione meccanica” degli interessi individuali.
Gli esseri umani, così come aveva affermato Hobbes, perseguendo il loro egoismo, si adoperano involontariamente al benessere collettivo:

“una mano invisibile sembra forzarli (i ricchi) a
concorrere a quella stessa distribuzione delle cose necessarie alla vita se la terra fosse stata data in eguali proporzioni a ciascuno dei suoi abitanti; e, così, senza averne l’intenzione, senza nemmeno saperlo, il ricco serve l ‘ interesse del la società e contribuisce alla moltiplicazione della specie umana”

(Théorie des sentiments moraux , Paris,1830)

Smi th di fende, per tanto, la concezione liberale, poiché sostiene che solo la libertà può garantire il vero progresso, le ingiustizie, causate dalla libertà economica, non sono poi, così gravi: la libertà è la condizione del progresso sociale ed economico e la Provvidenza dà a individui, appartenenti a diverse classi sociali, più o meno le stesse soddisfazioni.
Da un punto di vista strettamente utilitaristico il ragionamento è poco convincente, ma sembra proporre ai suoi lettori un ideale più “Stoico” che “Epicureo”.

Nel 1776 scrive “Ricerche sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni”, in cui Smith chiarisce il concetto di “valore d’uso” e “valore di scambio”:

“Bisogna osservare che il termine valore ha due significati diversi: talvolta significa l’utilità di un particolare oggetto, tal altra, invece, indica la facoltà che deriva dal possesso dell’oggetto in questione, di acquistare con esso delle altre merci. Si può chiamare il primo valore d’uso ed il secondo valore di scambio”


Il valore di scambio è, invece, lo scambio del lavoro necessario alla produzione delle merci stesse.
Se noi considerassimo solo il “Prezzo naturale”, ossia di una merce uguale all’ammontare dei salari pagata per ottenerla, tutto sarebbe semplice, al contrario bisogna calcolare anche il profitto del capitale e la rendita fondiaria.

Il profitto, pertanto, non è, per Smith, la remunerazione di un lavoro così come non lo è la rendita terriera; in un paese civile non vi sono rapporti precisi tra prezzi naturali delle merci ed i loro costi in termini di lavoro.
Il rapporto “armonico” tra prezzi delle merci ed i loro costi in termini di lavoro può sussistere solo in una società in cui il prodotto del lavoro appartiene interamente al lavoratore, ma una tale situazione” paradisiaca” non esiste nei tempi moderni.
Non possiamo, inoltre, ignorare il grande contributo, di Smith (nel corso tenuto a Glasgow nel 1763), relativo all’opulenza che nasce dalla divisione del lavoro”, che è determinato da tre cause:

  1. Incremento dell’ abilità dei lavoratori, che deriva dalla loro specializzazione
  2. L’economia di tempo: il lavoratore non passa più da un genere di produzione ad un altro
  3. Utilizzazione delle macchine

Queste poche righe su Adam Smith non hanno la pretesa di esaminare l’opera omnia, ma spero di essere riuscito a rendere giustizia sulle vere concezioni di Smith, attraverso un’attenta analisi delle sue principali opere, tenuto conto che, troppo spesso, le eccessive semplificazioni ne hanno travisato l’originale pensiero.
In lui vi è sempre la coscienza del filosofo che esalta, per principio, la saggezza al di sopra di tutto ma, nel contempo, il suo empirismo lo ha spinto ad affermare una concezione della vita sociale, in cui l’efficienza economica rappresenta una “fede”, se è contraddetta dalla storia è quest’ultima ad aver torto.